COME PERDEMMO
Si trattava di una vera e propria filippica che, fitta di esempi, metteva chiaramente in luce i modi arbitrari e vessatori con cui gli autori del blocco operavano, i danni che le continue perdite di tempo ed i sequestri di navi e di merci provocavano alle ditte italiane e l'inaccettabile controllo alleato sulla posta italiana, contrario alla Convenzione dell'Aia del 1907, secondo cui la corrispondenza, anche quella diretta al nemico, è inviolabile.
In pratica, dal 3 settembre 1939 al 3 maggio 1940, ben 857 fermi e dirottamenti dì navi mercantili italiane erano stati operati dalle potenze occidentali, nella maggioranza dei casi dalla Gran Bretagna, e non pochi nel Mediterraneo. Se si considera l'importanza che il concetto del prestigio nazionale aveva fino al 1945 ed in particolar modo nell'Italia imperiale e ancor di più in un uomo come Benito Mussolini, si è portati a giustificare la nostra entrata in guerra, tanto più che una simile situazione avallava la tesi della ”prigione mediterranea”. La guerra che incominciava, anche se oggi il discorso non piace, era nel pieno della tradizione risorgimentale e fu anzi definita la “Quinta Guerra per l'Indipendenza”. E proprio perché risorgimentale era imperialista, con le solite tesi democratiche dell'imperialismo italiano, sempre buone per presentarlo in modo innocente. Così era stato nel 1915 e nelle guerre coloniali del 1895, del 1911 e del 1935. Giustamente Golo Mann fa notare che…“il grido per Roma e per Venezia si mutò e continuò a risuonare altisonante per il Trentino prima, poi per il Tirolo e
Vi furono manifestazioni di entusiasmo, cosa che non era avvenuta né in Gran Bretagna, né in Francia, né in Germania, e la guerra non fu solo accettata, ma l'accettazione fu accompagnata da un consenso che, sebbene destinato a durare pochi mesi, ci fu. Popolo e classe dominante avevano accettato la guerra ed esaltati dai sorprendenti successi dell'alleato germanico nella stragrande maggioranza si erano presto convinti di una rapida vittoria: l'imprecazione Dio stramaledica gli inglesi che ogni sera Mario Appelius lanciava dai microfoni della radio di Stato, non disturbava che pochi e diligentemente, su lettere e cartoline, come desiderava il Duce, si scriveva, oltre all'anno dell'era fascista, a mò di saluto la parola Vincere. L'accettazione della guerra si era rivelata poi un ottimo affare per gli industriali. Roberto Battaglia, storico comunista, ci racconta che prima della guerra d'Etiopia, nel 1935, il capitale della Montecatini ammontava a 300 milioni di lire, ma era già passato a 1.300 milioni alla vigilia della seconda guerra mondiale e nel 1942 raggiungeva ormai il livello di 2.500 milioni! I rovesci militari ruppero questa unità tra popolo e classe dominante: la massa degli italiani continuò a trascinarsi il peso della guerra con rassegnazione, mista ad una buona dose di mediterraneo fatalismo, mentre il panico si impossessò dei ceti che avevano in mano le chiavi della politica, dell'industria e dell'alta finanza, che nella sconfitta vedevano compromessi i loro interessi. Tanto bastò perché costoro si predisponessero per tempo a prendere le distanze dal regime dal quale fino allora avevano ricevuto tranquillità e benessere. Nei ceti popolari il regime era ancora forte, o almeno tale era considerato, ed un'opposizione antifascista era praticamente inesistente, tale non potendosi considerare gli sparuti gruppi clandestini, soprattutto comunisti. La testimonianza di Montanelli disegna che cosa ribolliva nella capiente pentola romana, dove la guerra aveva interrotto il feeling tra il regime e il generone di aristocratici, arrampicatori, profittatori. Costoro, con l'esperienza accumulata in millenni di caput mundi, annusavano che gli anni belli erano finiti e che
Cosi i ragazzi italiani della generazione sfortunata, i nati fra il 1912 e il 1922, furono mandati in guerra da un re che contribuiva con i propri soldi a fabbricare e acquistare le armi con le quali sarebbero stati uccisi. Il generale Valle, aveva messo a punto un siluro capace di funzionare con lancio da ottanta metri, distanza per i tempi notevolissima. L'Inghilterra,
Neppure questa commessa era bastata a ridestare l'interesse dei vertici militari. Il grossolano comportamento britannico nei confronti di Mussolini rinforzò la posizione di Hitler nell'Asse. Per costringere Mussolini a prendere sul serio le sue trattative commerciali con
ATTI DÌ SABOTAGGIOI risultati complessivi del massiccio attacco pomeridiano sferrato dalle basi siciliane appaiono subito sconfortanti. Nessun colpo a segno, nemmeno dai pur bravi tuffatori del maggiore Cenni. Chi più degli altri si inquieta è proprio Buscaglia: discutendo con i suoi piloti ha la certezza che molti siluri siano stati lanciati bene e da molto vicino (il fotografo di Graziani aveva scattato una bellissima foto mentre sorvolava da pochi metri il ponte di una portaerei). E pertanto inoltra un'immediata protesta ai Comandi superiori perché fosse accertata l'efficienza dei siluri assegnati ai reparti. Le successive indagini avrebbero stabilito che, in effetti, molti degli ordigni prodotti dal silurificio di Napoli presentavano vistosi difetti di costruzione, se non addirittura palesi segni di sabotaggio. Il direttore dello stabilimento e l'ingegnere addetto ai collaudi sarebbero stati arrestati e messi sotto processo.
Grazie all'atteggiamento passivo dei comandi italiani, il generale Wavell può preparare in tranquillità la ripresa dell'offensiva. Egli ha avuto, non sappiamo come, i disegni delle fortificazioni di Bardia, redatti dal Genio Militare italiano. Questi mostrano il campo trincerato a forma di arco, lungo trentadue chilometri e profondo circa nove nel punto di maggior curvatura. All'ombra di Petroncelli e dello schermo protettivo che tale amicizia gli riverbera attorno, Canepa costituisce le sue cellule di studenti. Sono composte da quattro elementi, nessuno conosce gli adepti delle altre cellule. Canepa li ha convinti con il miraggio dell'indipendenza spiegando che la via per raggiungerla passa attraverso la sconfitta dell'Italia e la vittoria dei francesi e degli inglesi. Al corso d'indottrinamento ideologico tiene dietro quello pratico. Se ne occupano agenti del Secret Intelligence Service in missione da Roma. I ragazzi di Canepa opereranno fino al giorno dello sbarco (10 luglio '43): alcune azioni finiranno nelle notiziole pubblicate dal Popolo di Sicilia, il quotidiano di Catania. Si accennerà a strani “incidenti”, nessuno osa immaginare, o scrivere, che siano sabotaggi per conto del nemico. Di altri incidenti: una batteria di cannoni saltata a Tremestieri Etneo, un deposito di carburante dato alle fiamme a Misterbianco, non trapelerà alcun dettaglio. Mai tornano indietro a mani vuote.
Dopo più di sessant'anni dallo sbarco è ancora protetta l'identità di un professore universitario palermitano, massone e antifascista, che fornì una dettagliata descrizione delle coste siciliane, delle correnti dello Ionio e del Tirreno, della profondità delle acque e che spiegò fino a quale distanza dalle spiagge potevano spingersi le navi alleate.
In quegli stessi mesi, dalla sponda vaticana del Tevere piove un regalo ancora più prezioso. Si fa sapere a Donovan di poter consegnare la mappa dell'industria bellica giapponese con gli obiettivi primati da colpire per paralizzarla. Montini* dimostra di essere la fonte di più alto rango di cui gli Stati Uniti dispongono in Europa.
(*Paolo VI° Il suo nome in codice: verde, morì a Castel Gandolfo il 6 agosto 1978, per un malore improvviso). Il ruolo di numero due della diplomazia pontificia gli consentiva di avere accesso alle capillari informazioni che le sedi vescovili e le nunziature inviavano a Roma dal lontano Oriente. Per Donovan, Roosevelt, Marshall il comandante in capo delle forze armate USA, quella del Vaticano fu a lungo l'unica finestra aperta sull'Asia, sull'impenetrabile Giappone, sulla Cina invasa, sulle colonie inglesi e olandesi espugnate una per una dalle armate del Sol Levante. Si sviluppò in quel periodo il rapporto di assoluta fiducia tra la classe politica statunitense, in massima parte massone e protestante, e l'inquieto, tormentato assistente segretario di Stato. Le sofferenze, i lutti, le restrizioni dei civili venivano condivise dai fanti, dagli artiglieri, dai bersaglieri, ai quali per soprammercato era chiesto di prepararsi alla battaglia più aspra in difesa del suolo patrio. Mancavano, però, persino le scarpe per correre all'assalto e respingere il nemico invasore. Dentro i magazzini ne giacevano trentamila paia, ancora odorose di cuoio e di colla, ma erano state immaginate per un esercito di corazzieri: le misure andavano dal
Sotto l'incalzare degli avvenimenti, avendo cioè compreso che sarebbero sbarcati gli Alleati, fu stabilito nella primavera del '43 di utilizzare per le necessità della 6A armata il cemento locale. A causa della penuria di carbone erano soltanto 7000 tonnellate mensili, da dividere per giunta con aeronautica e marina. I lavori incominciarono tra mille inciampi, il principale dei quali fu la pretesa dei caporioni fascisti di versare ai manovali la paga sindacale, esattamente la metà di quella offerta dai proprietari terrieri per andare nei campi.
Ne nacque il solito contenzioso burocratico risolto dal calendario: arrivarono i giorni della mietitura e assicurare il raccolto del grano fu giudicato prioritario rispetto alle fortificazioni. A scavare fossati, a mettere mattoni, a srotolare il filo spinato vennero impiegati i soldati, a discapito dell'addestramento. Il mancato arrivo di nuove truppe, di armi, di munizioni, di approvvigionamenti che pure esistevano, basta dare un'occhiata ai numeri delle requisizioni effettuate dai tedeschi dopo l'8 settembre. Che venne interpretato come l'evidente dimostrazione che ormai i giochi erano fatti.
le ambiguità delle forze armate Ma c'era dell'altro che contribuiva a farci pesare ancora di più la prigionia: la lettura dei giornali, l'eco delle accuse, degli insulti, delle infamie che ogni giorno, con ritmo incalzante, venivano scagliate contro di noi. Se l'Italia era in rovina, se eserciti stranieri si accampavano in casa nostra, tutta la responsabilità ricadeva su Mussolini e su noi fascisti repubblicani. Ma il bello é che, in netto contrasto con questa tesi balorda, le cronache quotidiane erano piene delle rivelazioni di generali, ammiragli, industriali, uomini politici e di cultura che si vantavano di avere fatto di tutto per favorire il nemico e per farci perdere la guerra.
…E allora, maledetti bastardi, chi l'aveva voluta tanta rovina?. Chi aveva trasformato l'Italia in campo di battaglia per eserciti stranieri? Noi, forse, che ci eravamo battuti fino in fondo perché ciò non avvenisse?...
L'11 giugno segna il destino di Pantelleria. Fra le 11 e le 11,40 una potente formazione navale alleata bombarda i principali obiettivi dal mare, mentre dal cielo un centinaio di Fortezze volanti sganciano il loro carico micidiale. L'isola era ormai coperta da alte cortine di fumo nero. Un vero inferno. Ma il generale Eisenhower, comandante delle forze alleate in Mediterraneo, che aveva compiuto su una nave il periplo dell'isola, era ugualmente preoccupato per la scarsità di punti adatti allo sbarco delle truppe che, al largo, attendevano di entrare in azione. Inopinatamente, nel primo pomeriggio, l'ammiraglio Gino Pavesi, comandante militare dell'isola, chiedeva la resa. Aveva ottenuto l'autorizzazione dallo stesso Mussolini facendogli credere che la totale mancanza di acqua non consentiva più ai nostri reparti alcuna concreta possibilità di resistenza. Gli anglo-americani sbarcati a Pantelleria si limitarono a fare prigionieri i nostri 11.000 militari, e a catturare le vaste provviste di cui erano dotati.
…Nessuno di noi alla Decima era preparato a un colpo così duro, anche se da mesi la situazione della Marina non era chiara: qualcosa nell'ingranaggio della guerra non funzionava. Ne avevo parlato varie volte con alcuni colleghi e insieme avevamo tentato di capire il perché dello scarso rendimento delle operazioni navali…
Da quel momento tutte le risorse italiane dovrebbero convergere verso l'unico fronte rimasto all'Italia. Tutte le armi prodotte dall'industria italiana dovrebbero essere avviate in Libia, scortate dalle migliori e più potenti navi. Tutta l'aviazione dovrebbe essere riservata per i bisogni dell'Africa Settentrionale, il massimo numero di aerei dovrebbe dirigersi verso gli aeroporti della Tripolitania e della Cirenaica. Ma per
Visti i risultati, sono privati dei pezzi utilizzabili e disseminati sul terreno come bersagli civetta. II generale Pricolo, responsabile di aver fornito ai combattenti in Africa Settentrionale aerei che non volano, “non è tradotto davanti a una Corte Marziale”.
Questo dimostra la fondamentale ingenuità di Mussolini, che indulge di fronte a un così grave atto di sabotaggio e sembra non comprendere come lo stato di guerra, situazione eccezionale, richieda provvedimenti eccezionali. Anche nell'assegnazione di rinforzi terrestri si segue un criterio restrittivo.
Su mille autocarri richiesti a suo tempo da Balbo, in cinque mesi ne arrivano appena quattrocento, mentre venticinquemila su quarantaduemila requisiti sono accantonati per una progettata spedizione contro
Nella valle del Po si trovano due divisioni motorizzate,
Ma preferisce non polemizzare: ricorda soltanto ad Aimone di aver mandato anche a Bastico copia della lettera del 12 settembre. E che Bastico ha risposto di condividerne la sostanza. Il 4 novembre Aimone è costretto a lasciare il comando dell'Aviazione libica. Cinque giorni dopo, nella notte dal 9 al 10 novembre, i preparativi per l'offensiva contro Tobruk subiscono un altro grave colpo. Un convoglio di sette piroscafi, carichi di materiali e viveri per
Il battaglione italiano si è tanto rafforzato nella posizione da mettere in fuga i carri armati inglesi che hanno tentato di avvicinarsi. La posizione è importante, è una posizione chiave: permetterebbe alle forze britanniche, dentro e fuori Tobruk, di ricongiungersi. Si potrebbe rafforzarla o almeno tenerla un giorno ancora, e permettere a Rommel di spazzare con le sue divisioni corazzate l'esigua forza rimasta ad Auchinléck in Egitto. Ma qui avviene qualcosa di illogico. Dopo il tramonto, continua il racconto di Odorici, a mezzo di un autocarro che sono riuscito ad avviare alle retrovie per rifornirmi di acqua e viveri, mi giunge l'ordine di sganciarmi dal nemico e di ripiegare dietro il Comando di Divisione. (Le perdite subite dal battaglione sono veramente esigue: dieci morti, ventisette feriti, due cannoni, e una mitragliatrice fuori uso).
Così, nella notte sul 28 novembre, senza motivo e senza combattimento, per ordine del comando, gli italiani sgombrano volontariamente El Duda, baricentro della battaglia della Marmarica, che gl'inglesi per dieci giorni avevano cercato di conquistare senza riuscirvi. Il battaglione che la presiedeva aveva subito perdite lievissime, non era accerchiato, lo spirito dei suoi uomini era alto. E invece dell'ordine di resistere ad oltranza, il camion della spesa viveri gli ha portato quello di ritirarsi. Dentro il corridoio, ormai chiuso a nord, é rimasta l'ultima brigata della divisione neozelandese, sostenuta da un centinaio di carri inglesi. Rommel vuole imbottigliarli, chiudendo l'ultimo sbocco col Corpo d'Armata di Gambara: l'Ariete è già sul posto,
Sembra privo di ogni logica che Gambara cerchi da altri le informazioni che potrebbe avere direttamente, e che Piazzoni, a sua volta, non comunichi notizie al proprio superiore. È strano, insomma, che i due generali si ignorino. Ma il gioco è sottile: l'uno frappone indugi e impedimenti all'esecuzione degli ordini di Rommel, l'altro mostra di conoscerli vagamente, quasi per sentito dire. Intanto
Non vedendo comparire la divisione, che dovrebbe essere in marcia da circa tre ore, Rommel piomba a Bu-Cremisa verso le undici. Lo vede il colonnello Ricciardi, comandante dell'artiglieria della Trieste, mentre dall'alto del suo automezzo inveisce contro Piazzoni per il ritardo nell'inizio del movimento della divisione. Anche Odorici, reduce da El Duda, assiste al cicchetto: L'Eccellenza Rommel si è messo a urlare arrabbiatissimo, ritto sulla sua auto.
Piazzoni, a questo punto, non può più tergiversare. Tuttavia non convoca i comandanti dipendenti, non li informa ancora circa i compiti che la divisione dovrebbe assolvere. Si affida al telefono. Appena Rommel si è allontanato fa chiamare dal suo capo di stato maggiore il Sessantaseiesimo fanteria. La ricezione è disturbata e prende il microfono personalmente il comandante, il colonnello Fabozzi. Il Sessantaseiesimo parta e segua il Trigh Capuzzo. Obiettivo Abiar en Nbeidàt. Il Nono bersaglieri si terrà arretrato sulla destra. È tutto. Con quattro ore e mezzo di ritardo,
Ma
È appena giunta in vicinanza di El Adem e non è assolutamente in grado di proseguire. I soldati sono esausti, non hanno acqua da due giorni, hanno dovuto aprirsi la strada a viva forza. Viveri, munizioni, carburanti scarseggiano. Il generale Piazzoni, secondo Gambara, si è recato al Comando del Corpo d'Armata di Manovra, a El Adem, e ha illustrato lo stato miserando della sua divisione.
Ma al comando italiano non hanno fretta: nemmeno di aiutare i connazionali. Gambara, tranquillo, risponde a Rommel: farò partire
Basterebbero a Gambara meno di cinque minuti per recarsi da El Adem a Quota Centosettantasette di Bu-Cremisa, dov'è Piazzoni. Oppure potrebbe chiamare a El Adem il comandante di divisione. Ma ancora una volta i due generali, come sei giorni avanti, il primo dicembre, si evitano. Dopo un'altra ora e mezzo, alle nove, Piazzoni comunica al corpo d'armata: in questo momento parte il Sessantaseiesimo fanteria, meno un battaglione, con un'avanguardia di motociclisti. Il resto della divisione seguirà immediatamente.
Ma nello stesso istante in cui ha fatto questa comunicazione, il generale ha radiotelegrafato al Sessantaseiesimo: Novità N.N., ossia, in gergo militare, rimanete ai vostri posti. Il tempo passa e, nonostante i telegrammi, non arriva nessuno. Dov'è Gambara? È l'insistente ritornello del generale Cruwell, mentre le sue divisioni e i Giovani Fascisti continuano a combattere. Partita alle nove o alle otto e mezzo che fosse, un'ora doveva bastare alla divisione italiana per coprire i venti chilometri che la separavano dalle divisioni tedesche. Ne sono passate tre e non si è ancora visto neanche uno dei settemila uomini della Trieste. In cambio continuano le assicurazioni di Gambara: alle undici e trenta un altro dispaccio annuncia che la divisione sta marciando su due colonne, una al comando del generale Azzi, l'altra di Piazzoni. Nello stesso momento, Piazzoni sta ripetendo alla divisione, sempre accampata a Bu-Cremisa: Novità N.N..Ogni mezz'ora, puntualmente e invariabilmente, anche nel pomeriggio, la radio della Trieste continua a ricevere lo stesso segnale. L'ultimo Novità N.N. è delle quindici e trenta. II generale Gambara sta piangendo come un bambino, riferisce meravigliato Taddei ai compagni. Nessuno sa spiegarsi il perché di un fatto così insolito. La giornata è stata tranquilla: da quali preoccupazioni è sconvolto il comandante del corpo d'armata? Ma Gambara è disperato perché si rende conto di ciò che ha fatto, né può scusarsi col dire, come il primo dicembre, che non era a conoscenza del piano tedesco: stavolta Rommel glielo ha comunicato direttamente. Non può invocare il pretesto di aver voluto salvaguardare la priorità del comando italiano su quello alleato. Quando il piano tedesco gli era stato comunicato, prima della battaglia, poteva respingerlo, se gli sembrava inattuabile: non fingere di accettarlo per poi sabotarne l'esecuzione. Almeno per umanità, se non per dovere, avrebbe dovuto aiutare i connazionali in pericolo a Bir el Gobi. Insensibile a entrambi i sentimenti, Gambara si è reso strumento di rovina per l'esercito italiano e per il suo alleato in Africa Settentrionale. Ventiquattromila italiani e quattordicimila tedeschi morirono, furono feriti o dispersi nella battaglia della Marmarica.
Lo scontro si fa sempre più aspro. Rommel perde il controllo di sé nel rievocare quello che è accaduto. Tre settimane di combattimenti e di continui successi avrebbero potuto concludersi in una decisiva vittoria: invece italiani e tedeschi sono costretti a ripiegare. E gli inglesi, battuti continuamente, fuggiti due volte oltre frontiera, per colpa di Gambara, che nei momenti culminanti della battaglia ha fatto puntualmente mancare il concorso italiano, si accingono ancora una volta a marciare sulla Cirenaica.
Abbandonerò le truppe italiane, condurrò le mie divisioni in Tunisia e mi farò internare dai francesi, grida Rommel. Westphal e Cause, il capo di stato maggiore del Panzergruppe Afrika, annuiscono. Bastico va ad appartarsi con gli ufficiali del suo seguito in un angolo del torpedone, aspettando che il tedesco si calmi, ma Rommel urla di nuovo: Vi abbandonerò al vostro destino! Andrò con le mie truppe in Tunisia a farmi internare! E mentre Bastico gli fa cenno con le mani di calmarsi, il generale tedesco, fuori di sé, urla per la terza volta, ancora più forte, la stessa minaccia. Si vede bene che è pronto a tradurla in atto. Bastico si avvicina di nuovo. Finalmente non muove più obiezioni: le disposizioni per il ripiegamento, quelle almeno, saranno osservate. Sono le due del pomeriggio quando gli ufficiali italiani scendono dal torpedone di Rommel per rientrare alle loro sedi, dopo aver firmato il verbale di questo eccezionale incontro. Bastico ritiene più opportuno nascondere il documento da cui risulta la disobbedienza agli ordini superiori e la defezione di Gambara di fronte al nemico: non manda perciò al Comando Supremo il verbale del suo incontro con Rommel. Mussolini non dovrà sapere ciò che è avvenuto, né per colpa di chi la battaglia della Marmarica è stata perduta.
Galeazzo Ciano, uscito dal Consiglio dei Ministri, il 29 aprile 1939, si precipitò ad annotare sul suo Diario: Mussolini è decisamente scontento. E stata fatta un'inflazione di uomini ed il numero delle divisioni viene moltiplicato, ma in realtà queste sono cosi ridotte, da essere appena più forti di un reggimento. I depositi sono sguarniti, l'artiglieria è vecchia, le armi antiaeree e anticarro mancano del tutto. Il bluff è stato grande nel settore militare e il Duce stesso ne è rimasto ingannato. Ma si tratta dì un bluff tragico.
Non parliamo dell'aviazione: Giuseppe Valle (capo di Stato Maggiore dell'Arma e sottosegretario di Stato per l'aria fino all'ottobre del 1929) dichiara di avere 3.006 apparecchi disponibili, mentre i servizi di informazione dicono che ne abbia soltanto 982. Una grossa differenza. Se a tutto ciò si aggiunge la forte anglofilia degli alti comandi navali a Roma, non ci si può più stupire che la maestosa flotta italiana abbia miseramente fallito ed il sogno del mare nostrum diventò presto un incubo. La 3a squadra navale (amm. Duplat), formata da quattro incrociatori, scortati da undici cacciatorpediniere, bombardò Genova e la costa tra la città e Recco, difese dagli italiani con la vecchia torpediniera Calatafimi (ten. di vascello Giuseppe Brignole) e con una squadriglia di siluranti agli ordini del tenente Parodi. A meno di duecento chilometri, nell'importante base navale della Spezia si trovava alla fonda mezza flotta italiana! L'occasione buona si presentò il 30 agosto, quando la flotta britannica diede inizio all'operazione Hats (Cappelli), il cui scopo era quello di rifornire Malta con le due squadre di Gibilterra e d'Alessandria d'Egitto che, data la posizione geografica, la flotta italiana avrebbe potuto affrontare e battere separatamente. Cosi il 31, con lo scopo di intercettare il nemico, uscirono da Taranto cinque corazzate (Littorio, Vittorio Veneto, Giulio Cesare, Conte di Cavour e Caio Duilio), scortate da sei incrociatori e ventisette cacciatorpediniere. Il risultato di questa operazione fu nullo, se si esclude il carburante sprecato. Infatti la caccia all'inglese si svolse mantenendosi a distanza di sicurezza dalla preda, la quale ebbe anche modo di bombardare le isole italiane dell'Egeo e di concludere brillantemente il 6 settembre l'operazione Hats, lamentando solo lievi danni sull'incrociatore Cornwall, a causa di una bomba d'aereo. Ormai il mare nostrum si trasformava sempre di più in un lago britannico, con tutte le conseguenze immaginabili per le operazioni terrestri nell'Africa settentrionale. Se si pensa che Cunningham aveva ricevuto in quei giorni la corazzata Valiant e la nuova portaerei Illustrious non si può non affermare che la strategia di Supermarina sembrò fatta su commissione dei britannici perché loro si rafforzassero e divenissero invincibili. Il bombardamento fu condotto alle 8 del mattino dall'ammiraglio Sir James Fownes Somerville con 2 corazzate, 1 portaerei, 1 incrociatore e 10 cacciatorpediniere che scaraventarono sulla città 1.055 proietti che causarono la morte di 144 cittadini e ne ferirono altri 272. La flotta italiana, forte di 3 corazzate, 3 incrociatori pesanti e 10 cacciatorpediniere, restò, come sempre, chiusa alla Spezia. Indubbiamente però, la presenza di un Franco Maugeri, capo di Stato Maggiore della marina dal dicembre del 1946 al novembre del 1948, alla carica di capo del servizio segreto navale durante il conflitto e che stranamente ottenne una decorazione americana nel 1946 per importanti servizi resi mentre rivestiva il suddetto incarico, induce a pensare che la teoria del tradimento non sia stata sempre campata in aria. Dal 4 gennaio le truppe dell'Asse, sotto un furioso temporale, si erano sistemate sulla nuova linea di resistenza, ma per Rommel la migliore difesa era l'attacco.
Così, il 13, egli decise di ripassare all'offensiva, onde evitare una nuova avanzata britannica, che avrebbe voluto dire sconfitta sicura. Tuttavia non fece parola della sua idea né al suo superiore, Ettore Bastico, né ai vertici della Wehrmacht di Berlino. Temeva infatti che Bastico e l'OKW avrebbero comunicato la cosa al Comando Supremo di Roma e, ciò era risaputo, sarebbe stato come comunicarlo a Londra, visto che nella capitale italiana i segreti trapelavano molto facilmente e puntualmente giungevano alle orecchie britanniche. Pantelleria era stata trasformata nel 1938 dall'architetto Pier Luigi Nervi in una fortezza dotata perfino di aviorimesse sotterranee e, per questo motivo, era stata definita, con enfasi, l’Antimalta italiana.
Comandante dell'isola era l'ammiraglio Gino Pavesi, da cui dipendeva il generale Mattei, ai cui ordini era la guarnigione, forte di circa 11.000 uomini. La situazione della difesa non era molto buona: sulle 54 o 44 batterie costiere solo 21 erano funzionanti e sui 150 aerei previsti ve ne erano al massimo una dozzina; Pavesi, infatti, aveva indotto quel mattino Mussolini a dare il suo assenso alla resa. Solo Stalin ed il Mikado possono ordinare di combattere fino all'ultimo uomo, disse il Duce per giustificare il suo assenso e comunicò a Pavesi: Chiamate Malta e dite che, per penuria d'acqua, cessate ogni resistenza! Si trattava di un abuso di fiducia (e Mussolini se ne rese poi conto): infatti i micidiali bombardamenti avevano distrutto soltanto due batterie e causato la morte di 35 militari e di 3 civili. Inoltre proprio lo stesso giorno della resa la 2a flotta aerea tedesca aveva inviato uno JU-52 che, atterrando all'aeroporto di Margana, aveva portato sull'isola con grande rischio dei rifornimenti d'acqua e se ne era andato promettendo di tornare con dell'altra. Una resistenza, anche se limitata nel tempo, era dunque possibile. Per bloccare l'avanzata britannica non restava perciò che il gruppo Schmalz, che da Catania si diresse contro il nemico, anche nella convinzione che sarebbe stato appoggiato dalla divisione Napoli, ma questa, senza aver sparato un colpo, si arrese il 13 sulla strada tra Palazzolo Acreide e Sortino alla 4a brigata corazzata britannica (generale Cavet) ed il comandante, Giulio Cesare Gotti-Porcinari, attese anzi i britannici tranquillamente seduto alla sua mensa! Respinto dunque il contrattacco tedesco tra il 12 ed il
In terzo luogo la paura di perdere la propria vita dovette essere in questi individui più forte del desiderio di guadagnare soldi ed il risultato fu che nessuna nave italiana fu consegnata volontariamente ai britannici prima dell'armistizio del 1943. Di tutto questo pissi pissi bau bau rimane perciò una cosa: l'attività (per non usare termini peggiori) degli ufficiali filobritannici della marina italiana si svolse nel campo dello spionaggio a favore del nemico e nel campo delle azioni tendenti a sabotare la guerra.
Il primo fu la causa della morte di innumerevoli marinai italiani, volgarmente pugnalati alla schiena; le seconde si manifestarono nell'inerzia di Supermarina al tempo dell'ammiraglio Domenico Cavagnari e, in minor misura, anche dopo il suo siluramento.
A fine novembre 1942, il duca Aimone di Spoleto, re di Croazia e fratello dell'ultimo viceré d'Etiopia, incaricò il console italiano a Ginevra, Luigi Cortese, di informare il colonnello inglese Victor Farrel del Secret Service che era disposto a rovesciare (assieme al principe ereditario) Mussolini e a sganciare l'Italia dalla Germania. Il tutto a condizione che gli fosse assicurata (oltre che il mantenimento della monarchia italiana) la collaborazione delle armi alleate, tra cui
La febbre cospirativa che aveva investito un poco tutti, sfaccendati, blasonati, generali sconfitti in battaglia, finanzieri ed industriali terrorizzati dal domani, perfino ministri, riuscì però anche ad ingenerare in Churchill le speranze da lui formulate. Tuttavia il coraggio dei cospiratori era scarso, il pericolo abbondante e a questi mancava la stoffa, la credibilità e, soprattutto, la forza, mentre talvolta agivano persino con ingenuità, sotto l'occhio vigile del SIM che, coadiuvato anche dalla Gestapo, era pronto a vanificare le iniziative, punendo i piccoli e neutralizzando i grandi. E tutti questi cospiratori da fine settimana furono ancora fortunati, visto che Mussolini, malgrado le sue manie romane, non usava dare i suoi amici in pasto ai leoni! Come inquietante postilla all'operato dei servizi segreti in Corsica vale la pena di trascrivere dalle considerazioni del capo Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito il brano dedicato al generale Giacomo Carboni, comandante del VII corpo d'armata stanziato nell'isola: secondo le accuse del dottor Petru Giovacchini, capo degli irredentisti corsi filoitaliani, il generale Carboni mantenne in questo periodo intelligenza col nemico, specie tramite un suo fido, il console della MVSN Umberto Cagnoni, che si legava col rappresentante di Giraud in Corsica, comandante di squadrone della gendarmeria Paul Colonna d'Istria, detto Cesari.
A inizio
Colonna d'Istria, sbarcato il 4 aprile 1943 da un sommergibile inglese sulla costa orientale, in breve tempo aggrega i gruppi indipendentisti nel Fronte nazionale e costituisce il comando unico della resistenza corsa. Il colonnello Umberto Cagnoni, comandante del reggimento di Bastia, nella primavera 1943 s'incontra segretamente con dirigenti irredentisti, cui offre collaborazione impegnandosi tra l'altro a controllare il porto di Bastia per favorire un eventuale sbarco alleato; successivamente egli trasmette una serie di notizie di rilievo militare sulla disgregazione delle difese italiane. I comandanti delle diverse armi non hanno avuto il coraggio di raccontargli che l'aviazione e la fanteria sono inadeguate per armamento e addestramento, che la marina è sì imponente, ma tarpata dalla mancanza di portaerei e per di più animata da fieri sentimenti antigermanici, con ammiragli scarsamente vogliosi di battersi. Vent'anni fa a Londra spuntarono documenti in cui veniva asserito che nell'estate del '40 le navi italiane erano state offerte per alcuni milioni di sterline. Anziché appurare se si trattava di volgari menzogne o di clamorose rivelazioni, si preferì far finta di niente. Eppure negli appunti di Churchill di fine '41 si parla del denaro necessario ad allettare alcuni ammiragli che da Roma avevano allacciato contatti tramite diplomatici svedesi.
Praticamente a riposo da un paio d'anni, Gustavo Pesenti, genovese, deve la carriera a Badoglio, che dopo la campagna d'Eritrea l'aveva spedito quale proprio fiduciario a comandare nel '39 il fronte somalo.
Allo scoppio delle ostilità, tutto preso dal suo sogno di mettere in musica
Tra le varie cose però che nutrirono le speranze di Eisenhower vi fu un incontro riservato che egli ebbe con un misterioso personaggio, il quale lo avvertì che il popolo italiano era pronto a far la pace a ogni costo. Eminenti personalità del governo italiano si erano infatti persuase di non poter vincere nemmeno se la parte con la quale si trovavano avesse vinto. Erano così desiderose di non inimicarsi gli Stati Uniti che i sommergibili erano stati ritirati dall'Atlantico. Il misterioso personaggio si riferisce all'inspiegabile ordine diramato quasi un anno prima, il 10 Dicembre 1941, da Supermarina e del quale abbiamo già dato conto.
L'identità dell'informatore di Eisenhower è rimasta inaccessibile, doveva però trattarsi di un militare o di un civile bene addentro ai pensieri, ai desideri, ai progetti ormai coltivati da larga parte del sistema. L'accenno ai sommergibili è illuminante e aumenta gli interrogativi sul comportamento della marina, sulle drammatiche partite che si disputarono in seno all'ammiragliato. Il riferimento alle eminenti personalità convinte di non poter vincere nemmeno se la parte con la quale si trovavano avesse vinto assomiglia molto a un'affermazione presente nelle memorie scritte dall'ammiraglio Maugeri per il pubblico di lingua inglese nel 1948 e alquanto differenti da quelle che sarebbero poi apparse in Italia nel 1980.
L'inverno del '42-'43 trovò molti di noi, che speravano in un'Italia libera, di fronte a questa dura, amara, dolorosa verità: non ci saremmo mai potuti liberare delle nostre catene, se l'Asse fosse stato vittorioso. Il famoso filo segreto che univa la monarchia e la massoneria italiane alle potenze nemiche s'irrobustiva ogni giorno di più e consentiva ai vertici militari e politici di Stati Uniti e Gran Bretagna di conoscere ciò che in teoria sarebbe dovuto rimanere sconosciuto. E una matassa ormai inestricabile di episodi e voci, di coincidenze e fatalità. In due libri (soldi truccati e L'esercito della lupara) è scritto che tra l'aprile e il maggio '43 una missione di ufficiali sabaudi fu paracadutata su Algeri per definire con l'alto comando di Eisenhower i dettagli dell'imminente invasione. La missione era guidata dal generale Giuseppe Castellano e comprendeva anche il capitano Vito Guarrasi, oscuro responsabile di un autoparco, e il tenente Galvano Lanza di Trabia. Se la vicenda fosse vera, e non risultano smentite ai due libri, andrebbe interamente riscritta la storia dell'armistizio.
Sarebbe la prova inequivocabile e definitiva che pezzi dello Stato, e che pezzi, trattarono con gli Alleati molto in anticipo sulla storiografia ufficiale e lo fecero nel territorio controllato da essi, non in una sede neutra come accadrà tra
L'ambiguo comportamento di alcuni ammiragli si è giovato nei decenni del lungo oblio con cui è stata avvolta in Italia la seconda guerra mondiale. Era una guerra persa ed era una guerra alla quale hanno appioppato la falsa etichetta di guerra fascista, quindi dimenticare, meglio non occuparsene più.
Ma è proprio così? Che a proclamarla sia stato l'aspirante borghesuccio di Predappio è indubbio, ma è altrettanto indubbio che a combatterla fu la generazione sfortunata dei ragazzi italiani, la quale non potè o non volle sottrarsi alla cartolina precetto. E a incidere sulla morte e sulla vita della generazione sfortunata in Africa, dentro i sommergibili, nelle navi da guerra e nei mercantili furono spesso le decisioni prese da Supermarina, la pomposa definizione dello stato maggiore navale. Il giorno della dichiarazione di guerra, il 10 giugno
La resa di quest'ultima trasformò la nostra flotta nella principale potenza del Mediterraneo. Un minuto dopo aver dichiarato la guerra, l'immediata priorità avrebbe dovuto essere Malta. Il protettorato britannico, fastidioso intruso nel mare nostrum fra
Per lo meno non lo sarebbe stata se fin dall'11 giugno 1940 la conduzione degli ammiragli seduti nelle comode poltrone dello stato maggiore non fosse stata improntata alla rinuncia, all'infingardaggine, all'assoluto disinteresse per la sorte di migliaia di marinai, vittime leali di giochi inconfessabili. Dalle navi colpite nella rada di Taranto al bombardamento di Genova, dall'assurda sconfitta di capo Matapan all'incredibile dietrofront di Punta Stilo e al patetico annaspare nel golfo della Sirte, due episodi in cui alla flotta inglese vennero risparmiate severe batoste. Supermarina fece di tutto per non fare la guerra agli inglesi. Churchill era seriamente preoccupato della sorte delle sue poche navi divise fra Gibilterra e Alessandria d'Egitto. Già il 17 luglio
Cunningham non possedeva doti divinatorie: qualcuno da Roma aveva preso a spifferare rotte latitudini e longitudini. Mentre Churchill con i suoi azzeccati interventi contribuiva alla stoica resistenza del Regno Unito, Mussolini si rivelò un presuntuoso dilettante: non si accorse che la marina gli giocava contro, che il suo atteggiamento rinunciatario gli stava facendo perdere la guerra molto prima dell'intervento americano. È una vicenda complessa e intricata che prende il via con Domenico Cavagnari, capo di stato maggiore dal '34 al dicembre del '40. Era un genovese forte con i deboli, debole con i forti, del tutto prono dinanzi a Mussolini. Ancora nel '36 aveva bocciato il progetto per la costruzione di tre portaerei e difeso a spada tratta l'imbecille scelta del duce. Era contrario alla guerra per motivi che avrebbero dovuto portare alla sua immediata destituzione: lamentava l'impreparazione dei suoi uomini tuttavia aveva giudicato inutile l'addestramento per il combattimento notturno e si era opposto agli studi e agli esperimenti di un rudimentale radar.
Dopo il 10 giugno fu il primo teorico della salvaguardia a ogni costo della flotta senza che qualcuno, e principalmente Mussolini, gli chiedesse a quale scopo fosse stata allora allestita con un esborso enorme per l'erario: oltre quattordici miliardi di lire (circa sette milioni di euro). A Cavagnari si deve anche il rifiuto, per le solite gelosie di bottega, di una vera collaborazione con l'aeronautica, resa indispensabile dalla mancanza di portaerei. A Roma, fra una confidenza e una maldicenza, più di un ufficiale superiore sapeva che i mercantili partiti all'improvviso o che avevano cambiato la rotta prescritta erano giunti nel porto di destinazione e l'identica benevola sorte capitava ai sommergibili che per un qualsiasi motivo non seguivano le indicazioni di Supermarina.
Il più grande successo italiano, l'incursione dei maiali di De
Carlo De Risio e Roberto Fabiani nel loro splendido pamphlet (La flotta tradita) hanno esibito le prove documentali sui sospetti che erano quasi certezze aleggianti nelle stanze del SIM. Tali documenti però aprono un altro interrogativo: come
Su un simile comune sentimento pesavano poi altri fattori: sessantasette alti ufficiali erano sposati con donne straniere, quindi facilmente avvicinabili; due importanti ammiragli: Mario Farangola, alla guida dei sommergibili, e Vittorio Tur, titolare d'incarichi molto delicati, avevano mogli inglesi, mentre due capitani di vascello destinati a una folgorante carriera, Brivonesi e Alberto Lais, erano coniugati con un'inglese e un'americana. Le accurate ricerche di De Risio e di Fabiani ci dicono che pure tre capitani di fregata e cinque tenenti di vascello dividevano il letto con signore anglosassoni. Ma c'è di più: Vittorio Tur, nel '40 comandante in Albania, nel '41 comandante della Forza Navale Speciale che avrebbe dovuto espugnare Malta, nel '43 comandante prima in Provenza poi nel basso Tirreno, aveva un fratello, Enrico Paolo, tenente di vascello ed antifascista convinto, emigrato nel '
Il ministro della marina americana, William Knox, definì il materiale consegnato da Girosi di valore inestimabile. La fortuna degli yankee fu che Girosi aveva un fratello, Massimo, contrammiraglio della regia marina. Nel farne un ritratto ai suoi amici dell'OSS Marcello spiegò che si trattava di un antifascista dichiarato e di un acceso sostenitore della causa alleata. Massimo Girosi lavorò in due delicatissimi uffici: le Operazioni, cioè la cabina di regia di tutte le missioni, lì dove si stabilivano le rotte delle navi, dei sommergibili e si conoscevano le rotte dei mercantili e dei piroscafi in viaggio per l'Africa e il SIS, che in teoria avrebbe dovuto dare la caccia alle spie interne e agli agenti nemici. Molto in teoria. Nel maggio del 1941 era stato nominato responsabile del SIS paradossalmente lo stesso acronimo del servizio segreto britannico l'ammiraglio Franco Maugeri, siciliano di Gela. La sua prima battaglia racconta egli stesso nelle sue memorie, fu burocratica: imporre la propria persona nell'organigramma autorizzato a partecipare alle riunioni giornaliere di vertice. Quelle in cui si varavano le missioni più segrete.
Il vicecomandante del Naval Intelligence, il capitano Ellis M. Zacharias, nella sua autobiografia, Secret Missions, sostiene che sia le imboscate dei primi mesi di guerra contro i sommergibili italiani nel Mediterraneo e nel mar Rosso, sia gli altri interventi a colpo sicuro contro incrociatori e mercantili erano dovuti alle informazioni che filtravano dal ministero di Roma e dall'Ufficio informativo.
Sandro Attanasio in due vecchi libri (Sicilia senza Italia e Gli anni della rabbia) ha scritto senza ricevere smentita: che sede importantissima del Supersim (la cellula dei servizi segreti in combutta, secondo Attanasio, con gli anglo-americani.) fu la villa di capo Soprano, nei pressi di Gela, appartenente al principe Ferdinando Pignatelli d'Aragona-Cortez. La villa, già proprietà dell'ammiraglio Maugeri, era stata comprata all'inizio della guerra dal principe con rogito notarile stipulato a Roma. Fra l'altro aveva fatto costruire in muratura una specie di ponte di nave sormontato da un altissimo pennone, che, si sussurrava a Gela, somigliava a un'antenna RT.
Nel pomeriggio del 10 luglio 1943 un gruppo di compiti ufficiali alleati di stato maggiore fece lunghe visite di cortesia alle due ville. Da capo Soprano, dove c'era una stazione radio in collegamento con Malta (il cui operatore era un ufficiale in servizio all'aeroporto di Ponte Olivo), partirono gli atti a facilitare in Sicilia l'esecuzione degli accordi presi con gli Alleati.
Al termine del conflitto, poco prima di essere promosso capo di stato maggiore con Girosi capo della squadra, l'ammiraglio Maugeri ricevette
Ne derivò una polemica violentissima. Maugeri infatti scriveva: L'Italia era piena d'inglesi e di italiani amici e simpatizzanti della Gran Bretagna, soprattutto tra l'aristocrazia. Io dubito che esistessero molte spie inglesi in Italia: essi non ne avevano davvero bisogno. L'Ammiragliato britannico aveva abbondanti amici tra i nostri ammiragli anziani e nello stesso ministero della Marina. Sospetto che gli inglesi fossero in grado di ottenere informazioni direttamente alla fonte.
In questo caso non c'era bisogno di spendere denari e sforzi per avere un esercito di agenti scorrazzanti per i fronti a mare di Napoli, Genova, Taranto,
Scrive Maugeri nel suo From the Ashes of Disgrace: “L'inverno del '42-'43 trovò molti di noi, che speravano in un'Italia libera, di fronte a questa dura, amara, dolorosa verità: non ci saremmo mai potuti liberare delle nostre catene, se l'Asse fosse stato vittorioso. E poco più avanti esplicita in maniera definitiva tale concetto: Più uno amava il suo Paese, più doveva pregare per la sua sconfitta nel campo di battaglia. Finire la guerra, non importa come, a qualsiasi costo. Tutto giusto, tutto condivisibile, tranne un dettaglio non irrilevante: i ragazzi italiani che andavano a morire sulle navi, affondate affinchè l'Asse non vincesse e perché la guerra andava conclusa a qualsiasi costo”.
“Il 15 marzo
A condizione, tuttavia, che il Terzo Reich fornisse la nafta necessaria a prendere il mare. Il povero duce aveva una volta di più abboccato all'amo degli ammiragli e di Ambrosio: la nafta c'era e in abbondanza”.
Si trattava semplicemente dell'ennesima scusa, buona per prepararsi il terreno. Riccardi, comunque, incontrando Doenitz fu a parole molto rassicurante: le coste della patria sarebbero state difese fino all'ultima granata, dell'ultimo cannone, dell'ultimo guscio di legno galleggiante. Era l'esatto contrario di ciò che meditavano gli ammiragli nel segreto delle loro stanze. Gli occhi di tutti erano rivolti alla Sicilia, tuttavia gli Alleati per giungervi dovevano prima liberarsi di Pantelleria. Mussolini si vantava di averla trasformata in un paracarro, la propaganda fascista aveva persuaso l'opinione pubblica che fosse l'equivalente di Malta, una rocca inespugnabile. A differenza di Malta, era fin lì servita a poco, ma la colpa andava addebitata al comportamento degli ammiragli, e uno di essi, Gino Pavesi, la comandava. Poi avevano costruito un attrezzato aeroporto militare, un grande hangar a due piani dentro la roccia, diverse postazioni per l'artiglieria, molte delle quali collocate dentro caverne inaccessibili dal fuoco esterno. (La guarnigione comprendeva 12.000 militari. Avevano in dotazione oltre novanta cannoni settantacinque da 76, otto da 152, otto da 120, diciotto mitragliatrici da
Proprio la sera dell'8 la cisterna Arno, salpata da Porto Empedocle, rifornì la guarnigione con trecento tonnellate d'acqua. Ventiquattr'ore dopo un capiente peschereccio condotto da marinai panteschi navigò al buio fino a un approdo conosciuto soltanto da loro: furono sbarcate 20 tonnellate di farina, 14 di fagioli, 17 di riso, 10 di pasta, 30 di benzina, munizioni, spolette, proiettili anticarro, 440 chili di tabacco. Secondo il Comando Supremo, Pantelleria poteva ben resistere e pure Supermarina si dichiarava d'accordo. I bombardamenti erano stati impressionanti, ma avevano centrato massi, campi incolti e qualche capra. La capacità di resistenza della truppa era intatta. Al mattino salpò da Sfax il naviglio con destinazione Pantelleria già sottoposta a terapia d'urto: 1040 apparecchi stavano sganciando 1400 tonnellate di ordigni. La sera alle 19 Pavesi telegrafò al ministero disegnando un quadro difforme dal vero: la difesa non è in grado di fronteggiare eventuali azioni di sbarco.
Mancano viveri, acqua e adeguati rifugi. Morale armati fiaccato da assoluta impotenza combattere e difendersi. Sento triste dovere dichiarare che tutte le possibilità materiali di resistenza sono esaurite. Il messaggio venne decifrato soltanto alle cinque dell'11. Per non svegliarlo la comunicazione fu data a Mussolini alle otto. Il duce credette che la richiesta di resa fosse addebitabile alla penuria di acqua, nessuno l'aveva informato delle trecento tonnellate consegnate dall'Arno: fece dunque dire a Pavesi di avvisare pure Malta che Pantelleria si arrendeva a causa dell'acqua. Alle 8.30 tutti i mezzi da sbarco alleati erano dinanzi a Pantelleria. Sostavano immobili, non sparavano. Davano l'impressione di attendere. Forse la bandiera bianca issata sul semaforo intorno alle 9.30. “Pavesi si arrese senza consultarsi con Supermarina e senza far distruggere i cannoni, le mitragliatrici, l'hangar, l'aeroporto, le installazioni“. Regalò al nemico una base di considerevole valore strategico quasi integra e questi in tre giorni la riconvertì alle proprie necessità. Fu Ambrosio a chiarire al feldmaresciallo che la squadra non si sarebbe mossa, e stavolta non difettava neppure la nafta. Le disponibilità ammontavano a 58.000 tonnellate, sufficienti per un mese di navigazione. A difettare era la voglia: come accadeva dall'11 giugno '40, i vertici della marina si rifiutavano di andare in battaglia. Eccesso di prudenza, eccesso di lungimiranza, o, molto più banalmente, rispetto d'intese con il nemico tanto ferree quanto inconfessabili? Il libro di Zacharias, il numero due del Naval Intelligence, è ricco di particolari da brividi. In vista dell'invasione i servizi segreti inglesi e statunitensi chiesero a Cunningham: Volete che la flotta italiana esca in battaglia o rimanga nei porti? Potete scegliere. E l'ammiraglio inglese scelse di non correre rischi, pur dicendosi sicuro di poter disintegrare il naviglio italiano. Allora, racconta Zacharias: intavolammo trattative con alcuni elementi dissidenti delle più alte sfere della marina italiana con cui eravamo direttamente in contatto. Incrociatori e corazzate rimasero così nei porti. In cambio l'aviazione alleata che tra il 1° giugno e il 9 luglio rase al suolo città e postazioni militari non sganciò neppure per sbaglio una bomba contro i porti di
Eppure la preparazione dello sbarco in Sicilia, con cui sarebbe stato aperto il secondo fronte europeo avrebbe dovuto suggerire di dedicare ogni attenzione e ogni sforzo alla neutralizzazione della flotta nemica. Il 9 luglio intorno alle 20 il capitano di fregata Gasparrini, capo di stato maggiore della piazza militare marittima di Augusta e Siracusa, telefonò al comando della difesa contraerea territoriale. Gli rispose il numero due, il seniore Calogero Sapio: a lui Gasparrini ordinò di comunicare ai reparti dipendenti di 'predisporre la disposizione per la distruzione delle batterie. Sapio ne fu allibito, e non certo per l'uso contorto della lingua italiana. La telefonata di Gasparrini fu seguita da un fonogramma firmato dal contrammiraglio: si riconfermava il precedente ordine e si ricordavano le responsabilità dei comandanti dipendenti circa l'esatto adempimento. Il piano di distruzione, per altro, non aveva mai ricevuto l'approvazione del Comando Supremo, quindi giaceva in un cassetto dal quale fu prelevato e ricopiato con la carta carbone. Scrive la corte di appello di Milano nella famosa sentenza che mandò assolto Trizzino dall'accusa di aver diffamato Leonardi, Pavesi e Brivonesi: Quando quell'ordine fu trasmesso e ripetuto, tra le 20 e le 21, non era ancora avvenuto lo sbarco dei reparti nemici aviotrasportati, ma l'avvistamento di numerosi mezzi navali fra
Il capomanipolo Morana si fece ripetere tre volte l'ordine giacché non riusciva a capacitarsene: per non farli cadere nelle mani del nemico sarebbe bastato alzarsi in volo. Fu uno sconsolato De Pasquale a dare il via libera. In simile marasma si erano perse le tracce di Leonardi. Sin dal mattino il suo comando a Grotte di Melilli non aveva risposto alle telefonate. Le staffette inviate da De Pasquale avevano trovato gli uffici deserti e incendiati. Dal primo pomeriggio il comandante della piazza diviene introvabile. Lo rintracciamo grazie alla testimonianza del generale Emilio Faldella al tribunale di Milano: “Si trasferì la sera del 10 dal caposaldo Sud al caposaldo Nord di Melilli; la mattina dell'11 al ponte minato nei pressi di Villasmundo, la sera del
I collegamenti c'erano e i telefoni funzionavano, taceva solo quello del comando… La sera dell'11 si cercava ancora a Melilli Grotte il comandante della piazza e questi si era trasferito da ventiquattr'ore a Melilli paese senza che nessuno lo sapesse.
Ne era a conoscenza soltanto il colonnello Schmalz. Aveva immediatamente avvisato Hitler con un telegramma cifrato: colonne di fuggiaschi incontrate sulla strada per Catania; distrutte le batterie della Piazza Militare Marittima di Augusta e Siracusa; Augusta sgombrata e da me rioccupata... Il mattino dell'11 Schmalz, attendato nei pressi di Melilli, fu abbordato da Leonardo. Chissà come sarà stato l'incontro fra l'asciutto e accigliato colonnello germanico, erede della tradizione prussiana di fedeltà ai doveri e alla bandiera, e il rappresentante di una lobby che da tre anni faceva di tutto per non combattere la guerra.
E tali erano ormai il caos e lo scoramento che la batteria nella penisola di Magnisi avvisò De Pasquale di aver avvistato mezzi pesanti dirigersi su Priolo: erano quelli germanici, ma furono catalogati come inglesi e anche i cannoni di Magnisi vennero inoffensivi. Venne colpito il cacciatorpediniere Eskimo, Troubridge fu costretto a trasbordare sull'Exmoor, che nella mattinata del 12 attraccò nella rada di Augusta assieme al caccia greco Kanaris. In direzione delle due navi furono sparati dal monte Tauro un paio di granate a casaccio.
Leonardi sostenne di esser stato lui a fare fuoco dopo aver recuperato gli otturatori dei cannoni. Nel suo Sicilia senza Italia Sandro Attanasio afferma, invece, che i pezzi fossero manovrati da alcuni giovanissimi ufficiali della 674a batteria e cita i nomi dei capimanipolo Caforio e Ghidetti. Cunningham non poteva immaginare che gliela avrebbero regalata intatta. E a questo proposito vale rifarsi per l'ultima volta alla sentenza della corte di appello di Milano:...è estremamente grave che nella giornata del 10 sia stata distrutta ogni cosa, batterie antinave, postazioni della difesa contraerea, stazione radio, treno armato, depositi di munizioni e carburante e siano rimaste intatte soltanto le attrezzature portuali: quelle attrezzature che poi furono di valido aiuto alle forze nemiche nello sviluppo delle operazioni di sbarco per la conquista totale dell'isola…A Mussolini la notizia della caduta di Augusta fu comunicata poco prima che gli fosse consegnato un rapporto spedito da Hitler attraverso il generale von Rintelen. Era la copia del fonogramma dell'11 sera di Schmalz a Kesselring: Sino ad oggi nessun attacco nemico ha avuto luogo contro Augusta. Gli inglesi non ci sono mai stati. Ciò nonostante il presidio italiano ha fatto saltare in aria cannoni e munizioni e incendiato un grande deposito di carburante. L'artiglieria contraerea di Augusta e Priolo ha gettato in mare le munizioni, poi ha fatto saltare in aria i cannoni. Già il giorno 11 nel pomeriggio nessun ufficiale o soldato italiano si trovava nella zona della brigata Schmalz. Molti ufficiali avevano già, nel corso della mattinata, abbandonato le loro truppe e con autoveicoli si erano recati a Catania e oltre. Molti soldati isolati o piccoli gruppi si aggirano per la campagna, taluni hanno gettato le uniformi e indossato abiti civili. Nelle stesse ore in cui Ambrosio difendeva il comportamento di ammiragli, generali, ufficiali, graduati, soldati, Leonardi si consegnava agli inglesi. Il generale Guzzoni ne propose un fulmineo processo per inettitudine, ma nell'Italia che andava a rotoli il procedimento non partì mai. Nel '44 fu
La neo Repubblica italiana, riaccolto nel proprio seno il prode combattente, gli conferì la promozione e la medaglia d'argento per il valore e il coraggio dimostrati nel difendere Augusta e Siracusa. Ai primi di agosto gli inglesi attraverso l'agente del servizio informazioni della marina in Svizzera hanno fatto pervenire una domanda secca: fino a quando gli italiani rimarranno al fianco del Terzo Reich? Maugeri è andato difilato dal ministro degli Esteri, Guariglia. La cui risposta è così riportata dall'ammiraglio: ”L'Italia è ansiosa di abbandonare i tedeschi al più presto possibile. Essa non può farlo a meno che, e sin quando, gli Alleati non vengano in aiuto con un appoggio davvero sostanzioso. Infine, se gli Alleati invaderanno il nostro territorio continentale, la nostra resistenza sarebbe puramente simbolica”. Negli stessi giorni da Lisbona Cippico avverte Supermarina del desiderio degli Alleati che la flotta italiana rimanga integra. Nella capitale portoghese si precipita un fidato emissario di Maugeri, il capitano Mario Vespa, il quale consegna all'addetto navale statunitense la totale adesione dei nostri ammiragli. Ed è un si pesante, quello di Vespa: Maugeri ha coinvolto anche Sansonetti e De Courten, il nuovo Ministro della Marina, che assomma pure la carica di capo di stato maggiore.
In quella prima settimana di agosto i giochi sono talmente scoperti da indurre il presidente del Portogallo Salazar a telegrafare al suo ambasciatore a Londra incaricandolo di prospettare che la flotta italiana venga internata nei porti lusitani. La vicenda è stata svelata da Antonio Trizzino in un altro suo straordinario libro, Settembre Nero, dove l'autore così conclude: ”Tutto ciò accade non soltanto prima della richiesta italiana di resa, ma anche prima della partenza dall'Italia del plenipotenziario del generale Castellano, che avviene il 12 agosto”. Dalla capitale Lanza di Trabia aveva fatto rientro nell'isola. Zanussi e Lanza di Trabia appartenevano alla fazione dell'esercito avversa ad Ambrosio e ai suoi piani, dunque anche a Castellano. Era, curiosamente, la fazione legata a Roatta: il capo di stato maggiore dell'esercito, promotore del viaggio di Zanussi nel timore di esser tagliato fuori dalle nuove intese e a Carboni. Intorno si agitavano i fantasmi del vecchio e del nuovo SIM, cioè di quello considerato vicino al nazifascismo e di quello considerato vicino agli Alleati. Era il valzer degli opportunisti e dei voltagabbana. In estate avevano liquidato Amè: il suo aver preso sul serio la guerra e cercato di vincerla l'aveva fatto bollare come fìlotedesco. Il primo di tali patti fu la consegna della flotta, per di più con l'obbligo di attraversare il Mediterraneo per andarsi ad ancorare sotto i cannoni della fortezza di Malta (telegramma di Cunningham a Churchill). E dire che nelle dichiarazioni d'intenti di quella prima settimana di settembre veniva ancora asserito che le navi avrebbero lasciato la base di
Un trasferimento assurdo e contro ogni regola, che costò la vita di 1253 uomini della Roma, l'ammiraglia, inabissatasi il 9 settembre nei pressi della Maddalena a causa di due bombe radiocomandate da 1400 chili sganciate da un Dornier 217K tedesco. E Bergamini, che era soltanto un militare ligio al dovere e al giuramento, perì assieme ai suoi marinai. Una strage che pesa sul capo degli ammiragli doppiogiochisti, ma della quale non furono mai chiamati a rispondere, come non risposero dell'onta inferta alla marina italiana: la consegna della flotta in un porto nemico. Un'onta che neppure i francesi avevano subito nel 1940: l'armistizio stipulato con
D'altronde Maugeri nelle sue memorie racconta l'emozione che provò nel veder sventolare dopo tre anni il tricolore accanto all'Union Jack. Il 6 giugno 1944 nella Roma appena liberata Marsloe e Murray, i due agenti del Naval Intelligence che da quasi un anno operano sul territorio italiano, raggiungono l'appartamento dell'ammiraglio Maugeri. L'incontro è caloroso, Marsloe e Murray si complimentano per l'ottimo lavoro svolto da Maugeri alla testa del SIS clandestino. Nei nove mesi dell'occupazione nazista l'ammiraglio ha infatti operato con la sua struttura al servizio degli Alleati. Lo racconta egli stesso con dovizia di particolari, ma senza chiarire in che modo era avvenuto il contatto, come lui fosse già noto agli anglo-americani, da chi fosse partita l'iniziativa.
Il comportamento delle truppe. Fra le varie accuse mosse nel dopoguerra dalla Jugoslavia all'Italia (accuse in gran parte strumentalizzate per presentare i successivi massacri e infoibamenti degli italiani come un fenomeno di giustizia popolare) c'è anche quella di avere compiuto violenze e atrocità durante l'occupazione. La pubblicistica slava non esitò in quegli anni a considerare i soldati italiani alla stessa stregua dei tedeschi e degli ustascia. In realtà, il comportamento delle nostre truppe fu molto diverso. Naturalmente, quando la situazione si fece particolarmente accesa, ci furono dei gravi eccessi, ma all'inizio gli stessi fascisti manifestarono orrore per i delitti commessi dai tedeschi e dagli ustascia. Spoliazioni, rapine, uccisioni sono all'ordine del giorno annotava scandalizzato Galeazze Ciano nel suo diario. Mentre il federale di Trieste, Emilie Grazioli, Commissario per
Anche quando la guerriglia si fece più accesa e si accentuarono gli attacchi contro i nostri soldati (peraltro suddivisi e sparpagliati in una miriade di piccoli presidi spesso indifendibili) molti ufficiali esitarono ad attuare le draconiane misure di rappresaglia che gli Alti comandi avevano adottato a imitazione dei tedeschi. I soldati, d'altra parte, recalcitravano davanti all'idea di trasformarsi in poliziotti. Molti si rifiutavano di eseguire gli ordini; e le pene severe comminate ai sabotatori non venivano nella maggior parte applicate.
Durante il conflitto. Per un attimo sembrò che non lo fosse più neppure nell'Italia settentrionale. Alle 10 del 5 marzo avvenne uno sciopero bianco alla FIAT Mirafiori di Torino: per la prima volta dopo sedici anni si era verificato uno sciopero che in pochi giorni si estese al Piemonte, alla Lombardia ed un poco all'Emilia. il sistema si decise d'un tratto per la maniera morbida ed il 31 marzo promise, in occasione del Natale di Roma (21 aprile), un'indennità di dieci lire al giorno ad operai ed impiegati: gli scioperanti tornarono a lavorare. II regime fascista, ormai con l'acqua alla gola, fu perciò relativamente morbido con gli operai. Si tenga infatti presente che il 7 maggio 1943 fu approvata a Washington una legge che prevedeva l'occupazione militare delle industrie in caso di sciopero e già il 24 giugno essa fu messa in pratica con l'occupazione delle officine FORD a Detroit. In confronto a Roosevelt, Mussolini si rivelò dunque, in quell'occasione, più…democratico.
Il colonnello Primaverile comandava a Scicli il 123° reggimento. A sera inoltrata ricevette una telefonata: uno sconosciuto, chiamandolo colonnello Primaverillo, gli intimò di arrendersi visto che il reggimento era accerchiato. Superato lo stupore: gli inglesi e soprattutto gli americani conoscevano nome, cognome e grado di tutti gli ufficiali italiani da maggiore in su, il colonnello organizzò la resistenza. I suoi fanti contrattaccarono, circa trenta paracadutisti furono catturati. Vennero consegnati ai carabinieri e da questi liberati al mattino, allorché fu chiaro che l'invasione procedeva inarrestabile.