sabato 5 maggio 2018

COME PERDEMMO LA GUERRA

Come perdemmo la guerra: Una guerra preventiva Mussolini ha fatto molte cose buone… ma non doveva fare la guerra. Con questo giudizio lapidario, ripetuto decine di migliaia di volte da articoli di riviste e documentari televisivi, viene chiusa una vicenda che merita ben altrimenti approfondite considerazioni. Dico subito che la mia tesi è opposta: intendo sostenere in questa sede gli argomenti che mi hanno convinto che l'Italia, come il Giappone nel 1941, sia stata obbligata ad entrare in guerra nel momento in cui la guerra avrebbe favorito gli interessi degli anglo-americani.

LA STRATEGIA DELLA GRANDE POTENZA.

Immaginate una grande potenza, che domina il mondo con la sua forza, e mantiene le altre Nazioni sotto il suo predominio militare ed economico. La grande potenza controlla tutti i giacimenti petroliferi e minerali del mondo, e tutte le vie di comunicazione navale: essa può limitare o strangolare l'economia di qualsiasi altra nazione a suo piacimento per non lasciarne crescere la forza economica e militare, oltre il punto in cui quella nazione possa metterne in pericolo il predominio. Immaginate ora che una o più nazioni minori vogliano liberarsi dal giogo della grande potenza: esclusa la via economica, perché la grande potenza strangolerebbe subito ogni sviluppo che possa mettere in pericolo la propria economia, non resta che la via militare. La guerra, che Clausewitz aveva definito come la diplomazia fatta con i cannoni. La grande potenza userà ovviamente la sua forza militare, e la userà nel momento preciso nel quale la nazione ribelle sta per raggiungere un livello d'armamento per lei pericoloso. In quel momento la nazione ribelle non ha interesse ad iniziare la guerra, perché non è ancora pronta, la guerra deve quindi essere provocata dalla grande potenza e possibilmente con una provocazione tale da farsi dichiarare guerra e recitare il ruolo della vittima innocente. Nonostante il tenore di vita dei suoi cittadini sia molto più alto di quello dei cittadini delle nazioni minori, non sarebbe facile mandarli a farsi ammazzare per difendere la politica imperialista, le banche e la grande finanza. Molto meglio mandarli al fronte affermando che devono difendere la libertà e l'indipendenza della Patria… e se poi si riesce a dipingere il nemico come l'essenza della malvagità tanto meglio, i soldati combatteranno con maggiore determinazione e probabilmente nessuno farà domande imbarazzanti. Questi erano i rapporti esistenti alla fine degli anni 30 tra Italia, Germania ed Inghilterra. Quest'ultima controllava i giacimenti di petrolio mediorientali, le miniere dei principali metalli industriali ed i principali mercati di negoziazione per tutti i materiali.
Fissando il prezzo delle materie prime e del petrolio, l'Inghilterra poteva decidere se e quanto la nostra industria potesse fare concorrenza alla sua. Controllando assieme agli americani i principali mercati mondiali, l'Inghilterra poteva decidere se e quanto la nostra industria potesse esportare e quindi crescere. In altre parole gli elegantissimi ed educatissimi banchieri inglesi potevano decidere, dalle comode poltrone del loro club, del tenore di vita e del futuro del popolo italiano. Sono sicuro che queste considerazioni vi fanno pensare ad avvenimenti recenti, e come vedremo nel seguito la cosa non è affatto casuale: un filo rosso si snoda lungo la storia dei secoli passati per giungere sino ai nostri giorni…e lega avvenimenti che sono sì distanti l'uno dall'altro decine d'anni, ma sono anche straordinariamente simili.

IL MONDO SI RIARMA

Preparare una nazione alla guerra è un processo che duri anni, e sessanta anni fa con una tecnologia meno progredita di quella odierna, possiamo stimare questo periodo in modo realistico in circa cinque anni. Intendiamoci, nessuno è mai veramente pronto alla guerra, manca sempre qualcosa, però ad un certo momento non si può più rimandare e si parte. Numerosi indizi fanno ritenere che gli anglo-americani si preparassero per il 1941, italiani e tedeschi per il 1943.
Per i primi era importante la data del 1941, perché in quell'anno si doveva rieleggere Roosevelt, il quale poteva vincere solo assicurando agli americani che non avrebbe fatto la guerra, come fece in varie dichiarazioni in incontri pubblici e discorsi alla radio. Una volta eletto…cambio completo di registro, con l'ordine alle navi da guerra americane di proteggere i convogli inglesi, anche attaccando i sommergibili tedeschi. I comandanti tedeschi avevano l'ordine di non rispondere anche ad attacchi intenzionali da parte americana, proprio per non dare motivo agli americani di entrare In guerra. Non riuscendo in questo modo, gli americani provvederono con un ultimatum al governo giapponese, perché rinunciasse all'invasione della Cina, ed al relativo embargo sul petrolio.
Vale la pena di osservare che se il Giappone conduceva una guerra imperialista in Cina, nessuno dava agli americani il diritto di immischiarsi nella politica altrui. In aggiunta l'embargo sul petrolio coinvolgeva anche le compagnie petrolifere anglo-olandesi, e ciò conferma la concertazione tra Washington e Londra. Senza petrolio l'economia del Giappone si sarebbe fermata. Alla data dell'ultimatum i giapponesi avevano riserve di petrolio per sei mesi: l'attacco di Pearl Harbour arrivò dopo quattro mesi.
La dichiarazione di guerra americana al Giappone ebbe come conseguenza automatica le dichiarazioni di guerra italiana e tedesca agli Stati Uniti: Roosevelt aveva ottenuto il suo scopo, proprio nel 1941.
Di Pearl Harbour ci occuperemo in uno dei prossimi capitoli, qui ci basta dire che lunghe ricerche storiche e diversi processi hanno stabilito che Washington era al corrente sia delle intenzioni giapponesi che della data d'attacco: tutto fu tenuto nascosto per poter entrare in guerra con qualche migliaio di morti al motto di: difendiamo la libertà. Per quanto riguarda l'Italia è noto che Mussolini preparasse l'Esposizione Universale di Roma per il 1942, quindi non sarebbe potuto entrare in guerra che nel 1943 al più presto. Ed a riprova di ciò nel 1943 il nostro Esercito ebbe finalmente le prime armi moderne, ma quando ormai la guerra era persa. Per parte tedesca è più difficile riportare informazioni, l'unica che posso citare proviene dal resoconto di un incontro fra Hitler e Raeder, il comandante in capo della Marina tedesca, dove Hitler afferma che la guerra si sarebbe dovuta concludere entro il 1946, perché per allora il vantaggio delle nuove armi tedesche si sarebbe presumibilmente azzerato. Come sopra esposto, tutte le nazioni si preparavano alla guerra almeno dal 1936 e casomai, se il termine dei cinque anni vale per tutti, gli anglo-americani avevano cominciato con almeno un anno d'anticipo. Per quanto sopra, atteggiarsi a vittime incolpevoli, sorprese dall’improvvisa follia guerrafondaia di Mussolini, sembra proprio una rappresentazione teatrale ad uso e consumo degli ingenui.

L'ENTRATA IN GUERRA DELL'ITALIA.

Nell'estate del 1939 le speranze di pace che avevano seguito l'accordo di Monaco, erano solo un ricordo; la richiesta della Germania di avere un collegamento terrestre con la regione portuale di Danzica, raggiungibile solo dal mare dopo la cessione forzata di territorio tedesco alla Polonia in seguito alla pace di Versailles, aveva riacceso polemiche ed ostilità. I tedeschi, con l'annessione dell'Austria e l'occupazione dei Sudeti, cercavano di ricostruire uno spazio economico smembrato dai trattati di pace del 1918, che diversi storici hanno giudicato inutilmente severi e tali da originare un'altra guerra. Gli inglesi ovviamente cercavano di impedire che l'industria e l'economia tedesche avessero modo di crescere e tornare ad essere un pericolo per la loro supremazia.
Tuttavia, come già detto, nel 1939 nessuno si sentiva veramente pronto e gli inglesi avevano due lunghi anni da aspettare, prima che Roosevelt rieletto potesse entrare in guerra.
In una prima fase cercarono di evitare la guerra, scomodarono persino Roosevelt, perché scrivesse a Mussolini una lettera mielosa esortandolo alla pace e lo invitasse ad un incontro alle Azzorre. Poi, improvvisamente, cambiarono idea, e fu la dichiarazione di guerra alla Germania. Per quali motivi? Non certamente la difesa della libertà polacca che fu solo un pretesto, visto che nel 1945 abbandonarono tranquillamente i poveri polacchi al loro misero destino di Repubblica Popolare e a 60 anni di miseria fisica e spirituale sotto il regime comunista. I motivi che voglio elencare come probabili sono i seguenti:
ENIGMA. Gli inglesi erano venuti in possesso dei mezzi per decifrare i messaggi Enigma, un sistema che i tedeschi ritenevano impenetrabile e che avrebbero usato lungo tutta la guerra per trasmettere ordini ai comandi delle unità combattenti. Un vantaggio di enorme importanza militare, che fece pendere la bilancia da parte inglese. Parleremo di Enigma, per l'importanza dell'argomento, in un capitolo a parte.

LA LEGGEREZZA DÌ CIANO.
Come ammette lui stesso nelle sue memorie, Ciano ebbe la leggerezza imperdonabile di far capire, anzi di dichiarare all'ambasciatore inglese Percy Lorraine il 30 Agosto, che l'Italia non sarebbe entrata in guerra. In data 7 Novembre scrive sul suo diario “…Ribbentrop continua a dire che l'Inghilterra è entrata in guerra perché ha saputo per tempo che l'Italia sarebbe rimasta neutrale…”. Sapere di dover affrontare solo la minaccia tedesca, e non anche una guerra navale nel Mediterraneo contro la temibile Marina italiana fu un vantaggio enorme per gli inglesi. I tedeschi non lo perdonarono mai a Ciano, e pretesero la sua fucilazione a Verona.

MILIONI DÌ BADOGLIO.
Vale anche la pena di riportare qui la voce di provenienza dal capo della Polizia Senise, che asseriva essere a sua conoscenza il fatto che Badoglio avesse ricevuto dai francesi la somma di 50 milioni di lire per assicurare la neutralità italiana. Di questa voce non esiste a mia conoscenza alcun riscontro positivo, non posso tuttavia fare a meno di dire che, nella mia opinione, il comandante militare che ha maggiormente danneggiato la nostra condotta di guerra è il generale Badoglio. Vedremo in seguito alcune delle sue brillanti decisioni.

LA DISINFORMAZIONE ORGANIZZATA.
Una serie di eventi mi spinge a credere che gli inglesi ingannarono deliberatamente Hitler, facendogli credere che una parte consistente della classe dominante inglese fosse contraria alla guerra e l'avrebbe impedita o quantomeno resa una commedia se fosse scoppiata, allo scopo di guadagnare qualche mese di tempo verso il traguardo del 1941.
La visita in pompa magna di Edoardo VII e Wally Simpson in Germania, con grandi dichirazioni di ammirazione per il Nazismo e ricevimenti ufficiali presso tutte le più alte cariche del Reich.
I contatti frenetici a mezzo corriere tra Londra e Berlino in tutta la settimana precedente la dichiarazione di guerra, e la meravigliata costernazione dei tedeschi nel ricevere la dichiarazione di guerra inglese.
La totale assenza di ogni seria operazione militare sul fronte franco-tedesco per il periodo straordinario di sei mesi dopo la dichiarazione di guerra, mentre sarebbe stato normale approfittare del fatto che metà della Wehrmacht fosse impegnata in Polonia.
L'altrimenti inspiegabile decisione di Hitler di fermare le sue forze corazzate e la Luftwaffe a Dunquerque, lasciando che le divisioni inglesi, ormai sconfitte e disarmate, tornassero in Inghilterra su una variopinta flotta di pescherecci, barche a vela e natanti di ogni tipo, tutti rigorosamente senza difesa.
Fin qui per quanto riguarda l'inizio della Guerra Mondiale, all'inizio di Settembre del 1939. Poi otto mesi di non belligeranza italiana, e la nostra dichiarazione di guerra a Francia ed Inghilterra il 10 Giugno del 1940. L'opinione diffusa sul perché siamo entrati in guerra: perché quel furbone di Mussolini pensava che la Germania avesse già vinto e voleva la sua fetta del bottino, lo hanno letto tutti gli italiani cento volte, su tutti i giornali. Chi non crede ai giornali può invece riflettere sui fatti seguenti.


I FRANCESI ERANO DISPERATI.
Il generale Gamelin aveva dichiarato il 23 Agosto 1939 la totale impreparazione delle forze armate francesi…un'offensiva non sarebbe stata possibile che nel 1942, sempre che si potesse contare sulle divisioni inglesi e su grandi quantità di materiali americani (interessante che queste dichiarazioni concordino con le mie deduzioni di sopra circa i piani anglo-americani). Così gli inglesi si trovarono nella situazione di avere scatenato una guerra, dove quelli che avevano sempre mandato a morire al loro posto, i francesi, non erano pronti. Cosa fare non era un problema, mica per niente l'Inghilterra era una grande potenza marittima: se non si poteva battere sul terreno e su di un fronte limitato un nemico più forte, la soluzione era allargare il conflitto, costringere il nemico ad impiegare parte delle sue forze su di un fronte lontano sottraendo uomini, munizioni e carburanti al fronte principale. Da qui il tentativo inglese di occupare nella primavera del 1940 la Norvegia, per tagliare le linee di trasporto che rifornivano le acciaierie tedesche con minerali di ferro svedesi. La cosa finì male, i tedeschi li presero prima a legnate e poi occuparono la Norvegia, mentre gli inglesi strillavano alla violazione della neutralità norvegese. Dopo di che…l'unico altro luogo dove si potesse allargare il fronte era il Mediterraneo…

L'EMBARGO SUL CARBONE.
Con scorte di carbone per circa un mese di consumi, la nostra industria dipendeva totalmente dalle importazioni di carbone tedesco via mare dal porto di Rotterdam. L'Italia era in quel momento un paese neutrale e nessuno avrebbe potuto bloccare secondo le norme internazionali le nostre importazioni, ma il governo inglese, dopo una lunga serie di vessazioni speciose iniziate nel Novembre del 1939, annunciò ai primi di Marzo del 1940 un blocco totale di tutte le navi italiane. L'annuncio era stato preceduto da una dichiarazione dell'ambasciatore inglese che il suo paese sarebbe stato lieto di fornire il nostro intero fabbisogno di carbone contro pagamento in macchine utensili, armi ed aerei militari. Qui occorre dire che un paese ha bisogno di essere armato anche quando vuole difendere la sua neutralità: consegnare armi ed aerei agli inglesi ci avrebbe costretto a chiedere la loro protezione e perdere completamente la nostra libertà di azione. Come ben notato nelle memorie del generale Faldella “…se il governo inglese avesse voluto affrettare l'intervento dell'Italia in guerra, non avrebbe potuto fare meglio…”É appena il caso di menzionare che lo stesso schema, sostituendo il carbone con il petrolio, fu usato l'anno seguente dagli Stati Uniti con il Giappone. Anche ai giapponesi fu offerto, se avessero rinunciato alle loro sciocche mire espansionistiche sulle zone riservate alle grandi potenze, un bel pacchetto di vantaggiosi accordi commerciali. L'ambasciatore americano che presentò l'offerta non aveva sicuramente dubbi sul tipo di risposta che avrebbe ricevuto.

IL FATTORE NAVALE.
La maggior parte di noi quando parla di guerra pensa principalmente ai combattimenti terrestri, talvolta magari a qualche scontro aereo; le regole e la strategia di impiego della potenza militare navale non ci sono familiari. Non può essere così per chi intenda parlare di storia, e per convincersene basta pensare che l'Inghilterra ha retto per tre secoli il più grande impero del mondo senza quasi combattere grandi battaglie terrestri. Persino la vittoria di Waterloo, che gli storici attribuiscono al genio di Wellington, fu vinta alla fine grazie ai prussiani del generale Blucher. Ancora, quando la Russia sovietica decise di sfidare la potenza militare americana il suo maggiore sforzo fu la costruzione di una possente flotta oceanica. La potenza navale inglese si è sempre basata sulla capacità di poter mettere contemporaneamente in linea nel Mediterraneo, nell'Atlantico e nel Pacifico una flotta comunque più potente di qualunque altra (come oggi fanno gli Stati Uniti). Nel Settembre 1939 l'Ammiragliato inglese si rese conto che, se avesse voluto proteggere i convogli in Atlantico che erano vitali per l'industria inglese, non aveva navi moderne sufficienti per presidiare il Mediterraneo ed il Pacifico. L'Ammiraglio Cunningham aveva preteso che non ci fossero ostilità nel Mediterraneo nel 1939 perché “…la perdita di qualche nave avrebbe avuto un effetto deleterio in Giappone…” Tuttavia nell'estate del 1940 la situazione per gli inglesi sarebbe ancora peggiorata: a fronte delle due navi da battaglia tipo King George che sarebbero entrate in linea, gli italiani avrebbero potuto schierare le due corazzate tipo Littorio, ed i tedeschi le due tipo Bismarck. Per evitare di trovarsi nei guai a breve, l'unica strada degli inglesi era quella di una guerra preventiva contro l'Italia, che spazzasse via la flotta italiana dal Mediterraneo, prima che le due Littorio entrassero in servizio, e lasciasse loro il pieno controllo di questa preziosa via di comunicazione che permette di trasferire una flotta intera dall'Atlantico al Pacifico in sole due settimane. La Warspite, la Ramilles, la Royal Sovereign e la Malaya… un'impressionante forza navale di quattro navi da battaglia fu riunita ad Alessandria il 10 Maggio senza alcun motivo apparente e, soprattutto, quando la loro presenza era vitale per proteggere il traffico marittimo inglese dalle scorrerie delle corazzate tascabili tedesche.
Assieme alle navi francesi avrebbero potuto fare a fette le due sole corazzate italiane. Nulla poi successe, perché nella stessa data del 10 Maggio i tedeschi diedero l'avvio alla loro campagna di Francia, che in sole due settimane polverizzò l'esercito francese ed obbligò ad un generale cambio di strategie. Ma la gigantesca concentrazione di navi da battaglia ed il suo sinistro significato non sfuggirono sicuramente allo Stato Maggiore della nostra Marina, che dovette riferire le sue conseguenze a Mussolini. Mancavano meno di 30 giorni alla nostra dichiarazione di guerra.

LA MISSIONE DÌ HESS.

Il volo di Hess in Inghilterra, da tutti liquidato come l'impresa di un folle: Hess era nientemeno che il numero due del Nazismo ed il successore dichiarato di Hitler. Che sia volato in Inghilterra, sia pure per iniziativa personale, a chiedere se fossero diventati matti e volessero veramente la guerra, mi pare provato dal fatto che per tutta la durata della sua lunghissima prigionia gli sia stato letteralmente impedito di parlare con chiunque; non poteva parlare di niente con nessuno.
Hess era detenuto nel carcere tedesco di Spandau come unico prigioniero, con una guardia composta da reparti delle quattro potenze vincitrici. E quando alla caduta del Comunismo i russi hanno dichiarato di non poter più mantenere la loro guardia alla prigione di Spandau, il che avrebbe significato smettere il teatrino e lasciarlo in libertà. Hess secondo la versione ufficiale si è suicidato.
I dati dell'autopsia richiesta dai familiari rivelano che è stato strangolato: sul serio, non doveva parlare con nessuno per nessun motivo.

giovedì 1 maggio 2008

VERSO LA DISFATTA

COME PERDEMMO LA GUERRA. Gli industriali ad esempio: Alberto Pirelli appoggiarono pubblicamente la nuova politica, e una moltitudine di voci si levò a chiedere vittoria, conquiste e il riconoscimento della leadership italiana nel mondo. Quando disse ch'era rimasto l'unico pacifista, Mussolini celiava; ma aveva completamente ragione nel percepire nell'opinione pubblica un enorme spostamento verso la convinzione che la Germania era prossima a vincere, e che l'Italia avrebbe fatto bene a schierarsi al suo fianco senza indugi. Folle di studenti marciarono per le vie di Milano fino alla sede del Popolo d'Italia, cantando gli inni della rivoluzione fascista e invocando la guerra. Almeno in pubblico, le voci esprimenti dubbio o incertezza furono pochissime, se pur ce ne furono, e il tesseramento del P.N.F.(Partito Nazionale Fascista) registrò un balzo in avanti senza precedenti. In seguito, il re e Badoglio insisterono entrambi sulla vigorosa opposizione da loro condotta contro l'entrata in guerra, e il secondo scrive di aver detto a Mussolini che si sarebbe trattato di un gesto suicida. Ma, oltre che un grande avaro, il re era un patriota, e non ostile all'idea di ampliare il suo regno. Pur essendo più equilibrato di Mussolini, e malgrado si rendesse conto dei pericoli in giuoco, non fece alcun passo serio per mantenere la neutralità dell'Italia, e fu probabilmente ben contento di prender per buono il giudizio del duce che la guerra si sarebbe presto conclusa con una vittoria. Quanto a Badoglio, avanzò certo qualche obiezione, ma non si dimise. Né si dimise alcuno degli altri generali o politici i quali in seguito dichiararono di aver compreso che la decisione di combattere avrebbe significato il suicidio del paese. Badoglio fu bensì consigliato da alcuni amici di rinunciare alla sua carica (data specialmente la sua notoria francofila), ma non lo fece. Non solo, ma non tenne neppure testa a Mussolini con un minimo di energia e risolutezza. Aveva in passato dimostrato di essere un fascista ragionevolmente buono, e accettava il principio del: Credere, obbedire e combattere. In realtà l'Italia si era venuta a trovare in una situazione molto difficile, poiché, il 16 gennaio, Londra aveva messo decisamente in crisi i buoni rapporti che si erano stabiliti, approfittando del blocco navale come minaccia per estorcere ciò che ai britannici premeva. In pratica gli italiani avrebbero dovuto acquistare in valuta, invece che 4, ben 8 milioni di tonnellate di carbone dalla Gran Bretagna, cosa impossibile per l'Italia, come era stato fatto chiaramente capire fin dal 29 dicembre, quando la richiesta, cioè, era già nell'aria. Il carbone tedesco, infatti, era acquistato non in valuta, ma in compensazioni: in frutta. La risposta britannica fu lapidaria: il carbone sarebbe stato pagato con 600-800 aerei, cannoni anticarro, batterie contraeree, munizioni, esplosivi, strumenti ottici per 15 milioni di sterline. Mussolini, per rispetto all'indipendenza italiana e per fedeltà all'alleato, rifiutò. Il 3 febbraio Londra modificò di poco la sua richiesta, il 9 poi Halifax, rendendosi conto che l'atteggiamento del suo governo, a prima vista scaltro, avrebbe potuto gettare definitivamente l'Italia nelle braccia della Germania, sperò di migliorare la situazione esprimendo vagamente il desiderio di un miglioramento dei rapporti bilaterali. La cosa naturalmente non bastò e i rapporti bilaterali peggiorarono, poiché Mussolini, contro il parere di Ciano e dì altri, rifiutò (e con molta dignità) ogni fornitura di materiale bellico. Al che l'ambasciatore britannico dichiarò che i presupposti per trattative commerciali erano crollati e minacciò il sequestro delle carboniere, che infatti fu preannunciato ufficialmente da Londra il 22. Il 5 marzo la prima carboniera italiana venne sequestrata e grande fu perciò il vantaggio morale quando la Germania annunciò, il 9 marzo, l'invio di von Ribbentrop a Roma per importanti comunicazioni. Lo stesso giorno in cui Ribbentrop giungeva nella capitale italiana, la Gran Bretagna tentò di correre ai ripari, rendendosi finalmente conto dello sbaglio fatto: le carboniere sequestrate che erano già tredici, vennero lasciate libere e Chamberlain dichiarò, alla Camera dei Comuni, che il sequestro era dovuto ad un equivoco e chiedeva perciò comprensione al governo italiano. La lettera fu stesa ventiquattr'ore dopo la dichiarazione di Londra di voler rivedere le disposizioni del blocco riguardanti l'Italia, ma giunse in un momento particolarmente infelice, poiché l'11 maggio il ministro plenipotenziario Luca Pietromarchi, capo dell'ufficio della guerra economica presso il ministero degli Esteri, aveva inviato al Duce una pepata relazione sui danni economici e di prestigio che il blocco alleato, soprattutto britannico, aveva fino al 3 maggio causato all'Italia.

Si trattava di una vera e propria filippica che, fitta di esempi, metteva chiaramente in luce i modi arbitrari e vessatori con cui gli autori del blocco operavano, i danni che le continue perdite di tempo ed i sequestri di navi e di merci provocavano alle ditte italiane e l'inaccettabile controllo alleato sulla posta italiana, contrario alla Convenzione dell'Aia del 1907, secondo cui la corrispondenza, anche quella diretta al nemico, è inviolabile.

In pratica, dal 3 settembre 1939 al 3 maggio 1940, ben 857 fermi e dirottamenti dì navi mercantili italiane erano stati operati dalle potenze occidentali, nella maggioranza dei casi dalla Gran Bretagna, e non pochi nel Mediterraneo. Se si considera l'importanza che il concetto del prestigio nazionale aveva fino al 1945 ed in particolar modo nell'Italia imperiale e ancor di più in un uomo come Benito Mussolini, si è portati a giustificare la nostra entrata in guerra, tanto più che una simile situazione avallava la tesi della prigione mediterranea. La guerra che incominciava, anche se oggi il discorso non piace, era nel pieno della tradizione risorgimentale e fu anzi definita la Quinta Guerra per l'Indipendenza. E proprio perché risorgimentale era imperialista, con le solite tesi democratiche dell'imperialismo italiano, sempre buone per presentarlo in modo innocente. Così era stato nel 1915 e nelle guerre coloniali del 1895, del 1911 e del 1935. Giustamente Golo Mann fa notare che…“il grido per Roma e per Venezia si mutò e continuò a risuonare altisonante per il Trentino prima, poi per il Tirolo e la Dalmazia, quindi per la Savoia, per la Corsica, per il grande impero africano”...un crescendo che non ci permette dì condannare Mussolini senza condannare Cavour, il cui costituzionalismo, in ultima analisi, era nient'altro che la volontà di essere lui il re al posto dì Vittorio Emanuele II.

Vi furono manifestazioni di entusiasmo, cosa che non era avvenuta né in Gran Bretagna, né in Francia, né in Germania, e la guerra non fu solo accettata, ma l'accettazione fu accompagnata da un consenso che, sebbene destinato a durare pochi mesi, ci fu. Popolo e classe dominante avevano accettato la guerra ed esaltati dai sorprendenti successi dell'alleato germanico nella stragrande maggioranza si erano presto convinti di una rapida vittoria: l'imprecazione Dio stramaledica gli inglesi che ogni sera Mario Appelius lanciava dai microfoni della radio di Stato, non disturbava che pochi e diligentemente, su lettere e cartoline, come desiderava il Duce, si scriveva, oltre all'anno dell'era fascista, a mò di saluto la parola Vincere. L'accettazione della guerra si era rivelata poi un ottimo affare per gli industriali. Roberto Battaglia, storico comunista, ci racconta che prima della guerra d'Etiopia, nel 1935, il capitale della Montecatini ammontava a 300 milioni di lire, ma era già passato a 1.300 milioni alla vigilia della seconda guerra mondiale e nel 1942 raggiungeva ormai il livello di 2.500 milioni! I rovesci militari ruppero questa unità tra popolo e classe dominante: la massa degli italiani continuò a trascinarsi il peso della guerra con rassegnazione, mista ad una buona dose di mediterraneo fatalismo, mentre il panico si impossessò dei ceti che avevano in mano le chiavi della politica, dell'industria e dell'alta finanza, che nella sconfitta vedevano compromessi i loro interessi. Tanto bastò perché costoro si predisponessero per tempo a prendere le distanze dal regime dal quale fino allora avevano ricevuto tranquillità e benessere. Nei ceti popolari il regime era ancora forte, o almeno tale era considerato, ed un'opposizione antifascista era praticamente inesistente, tale non potendosi considerare gli sparuti gruppi clandestini, soprattutto comunisti. La testimonianza di Montanelli disegna che cosa ribolliva nella capiente pentola romana, dove la guerra aveva interrotto il feeling tra il regime e il generone di aristocratici, arrampicatori, profittatori. Costoro, con l'esperienza accumulata in millenni di caput mundi, annusavano che gli anni belli erano finiti e che la Storia si apprestava a presentare il conto. I fascisti assumevano i vecchi connotati di buzzurri in camicia nera, dai quali era il caso di prendere le distanze. Tornavano di moda i gentlemen e i loro pallidi imitatori. Il 10 giugno del '40 Vittorio Emanuele III aveva sì dichiarato guerra alla Gran Bretagna, ma aveva mantenuto i depositi di famiglia presso la banca dei suoi amici ebrei e massoni.

Cosi i ragazzi italiani della generazione sfortunata, i nati fra il 1912 e il 1922, furono mandati in guerra da un re che contribuiva con i propri soldi a fabbricare e acquistare le armi con le quali sarebbero stati uccisi. Il generale Valle, aveva messo a punto un siluro capace di funzionare con lancio da ottanta metri, distanza per i tempi notevolissima. L'Inghilterra, la Svezia e la Germania avevano cercato in ogni modo di carpirne i segreti. Con la stipula del Patto d'Acciaio fra Berlino e Roma, la Luftwaffe aveva ordinato trecento siluri muniti dei famosi dispositivi di lancio alla Whitehead di Fiume.

Neppure questa commessa era bastata a ridestare l'interesse dei vertici militari. Il grossolano comportamento britannico nei confronti di Mussolini rinforzò la posizione di Hitler nell'Asse. Per costringere Mussolini a prendere sul serio le sue trattative commerciali con la Gran Bretagna, all'inizio di marzo Londra impose il blocco navale sulle importazioni italiane di carbone. Hitler si fece avanti immediatamente con l'offerta di un milione di tonnellate di carbone al mese e chiese un incontro col Duce.

ATTI DÌ SABOTAGGIOI risultati complessivi del massiccio attacco pomeridiano sferrato dalle basi siciliane appaiono subito sconfortanti. Nessun colpo a segno, nemmeno dai pur bravi tuffatori del maggiore Cenni. Chi più degli altri si inquieta è proprio Buscaglia: discutendo con i suoi piloti ha la certezza che molti siluri siano stati lanciati bene e da molto vicino (il fotografo di Graziani aveva scattato una bellissima foto mentre sorvolava da pochi metri il ponte di una portaerei). E pertanto inoltra un'immediata protesta ai Comandi superiori perché fosse accertata l'efficienza dei siluri assegnati ai reparti. Le successive indagini avrebbero stabilito che, in effetti, molti degli ordigni prodotti dal silurificio di Napoli presentavano vistosi difetti di costruzione, se non addirittura palesi segni di sabotaggio. Il direttore dello stabilimento e l'ingegnere addetto ai collaudi sarebbero stati arrestati e messi sotto processo.

Grazie all'atteggiamento passivo dei comandi italiani, il generale Wavell può preparare in tranquillità la ripresa dell'offensiva. Egli ha avuto, non sappiamo come, i disegni delle fortificazioni di Bardia, redatti dal Genio Militare italiano. Questi mostrano il campo trincerato a forma di arco, lungo trentadue chilometri e profondo circa nove nel punto di maggior curvatura. All'ombra di Petroncelli e dello schermo protettivo che tale amicizia gli riverbera attorno, Canepa costituisce le sue cellule di studenti. Sono composte da quattro elementi, nessuno conosce gli adepti delle altre cellule. Canepa li ha convinti con il miraggio dell'indipendenza spiegando che la via per raggiungerla passa attraverso la sconfitta dell'Italia e la vittoria dei francesi e degli inglesi. Al corso d'indottrinamento ideologico tiene dietro quello pratico. Se ne occupano agenti del Secret Intelligence Service in missione da Roma. I ragazzi di Canepa opereranno fino al giorno dello sbarco (10 luglio '43): alcune azioni finiranno nelle notiziole pubblicate dal Popolo di Sicilia, il quotidiano di Catania. Si accennerà a strani incidenti, nessuno osa immaginare, o scrivere, che siano sabotaggi per conto del nemico. Di altri incidenti: una batteria di cannoni saltata a Tremestieri Etneo, un deposito di carburante dato alle fiamme a Misterbianco, non trapelerà alcun dettaglio. Mai tornano indietro a mani vuote.

Dopo più di sessant'anni dallo sbarco è ancora protetta l'identità di un professore universitario palermitano, massone e antifascista, che fornì una dettagliata descrizione delle coste siciliane, delle correnti dello Ionio e del Tirreno, della profondità delle acque e che spiegò fino a quale distanza dalle spiagge potevano spingersi le navi alleate.

In quegli stessi mesi, dalla sponda vaticana del Tevere piove un regalo ancora più prezioso. Si fa sapere a Donovan di poter consegnare la mappa dell'industria bellica giapponese con gli obiettivi primati da colpire per paralizzarla. Montini* dimostra di essere la fonte di più alto rango di cui gli Stati Uniti dispongono in Europa.

(*Paolo VI° Il suo nome in codice: verde, morì a Castel Gandolfo il 6 agosto 1978, per un malore improvviso). Il ruolo di numero due della diplomazia pontificia gli consentiva di avere accesso alle capillari informazioni che le sedi vescovili e le nunziature inviavano a Roma dal lontano Oriente. Per Donovan, Roosevelt, Marshall il comandante in capo delle forze armate USA, quella del Vaticano fu a lungo l'unica finestra aperta sull'Asia, sull'impenetrabile Giappone, sulla Cina invasa, sulle colonie inglesi e olandesi espugnate una per una dalle armate del Sol Levante. Si sviluppò in quel periodo il rapporto di assoluta fiducia tra la classe politica statunitense, in massima parte massone e protestante, e l'inquieto, tormentato assistente segretario di Stato. Le sofferenze, i lutti, le restrizioni dei civili venivano condivise dai fanti, dagli artiglieri, dai bersaglieri, ai quali per soprammercato era chiesto di prepararsi alla battaglia più aspra in difesa del suolo patrio. Mancavano, però, persino le scarpe per correre all'assalto e respingere il nemico invasore. Dentro i magazzini ne giacevano trentamila paia, ancora odorose di cuoio e di colla, ma erano state immaginate per un esercito di corazzieri: le misure andavano dal 44 in su, quindi rimasero inutilizzate. Dal continente furono spedite altre settantamila paia, stavolta con i numeri adatti: purtroppo sparirono.

Sotto l'incalzare degli avvenimenti, avendo cioè compreso che sarebbero sbarcati gli Alleati, fu stabilito nella primavera del '43 di utilizzare per le necessità della 6A armata il cemento locale. A causa della penuria di carbone erano soltanto 7000 tonnellate mensili, da dividere per giunta con aeronautica e marina. I lavori incominciarono tra mille inciampi, il principale dei quali fu la pretesa dei caporioni fascisti di versare ai manovali la paga sindacale, esattamente la metà di quella offerta dai proprietari terrieri per andare nei campi.

Ne nacque il solito contenzioso burocratico risolto dal calendario: arrivarono i giorni della mietitura e assicurare il raccolto del grano fu giudicato prioritario rispetto alle fortificazioni. A scavare fossati, a mettere mattoni, a srotolare il filo spinato vennero impiegati i soldati, a discapito dell'addestramento. Il mancato arrivo di nuove truppe, di armi, di munizioni, di approvvigionamenti che pure esistevano, basta dare un'occhiata ai numeri delle requisizioni effettuate dai tedeschi dopo l'8 settembre. Che venne interpretato come l'evidente dimostrazione che ormai i giochi erano fatti.

le ambiguità delle forze armate Ma c'era dell'altro che contribuiva a farci pesare ancora di più la prigionia: la lettura dei giornali, l'eco delle accuse, degli insulti, delle infamie che ogni giorno, con ritmo incalzante, venivano scagliate contro di noi. Se l'Italia era in rovina, se eserciti stranieri si accampavano in casa nostra, tutta la responsabilità ricadeva su Mussolini e su noi fascisti repubblicani. Ma il bello é che, in netto contrasto con questa tesi balorda, le cronache quotidiane erano piene delle rivelazioni di generali, ammiragli, industriali, uomini politici e di cultura che si vantavano di avere fatto di tutto per favorire il nemico e per farci perdere la guerra.

E allora, maledetti bastardi, chi l'aveva voluta tanta rovina?. Chi aveva trasformato l'Italia in campo di battaglia per eserciti stranieri? Noi, forse, che ci eravamo battuti fino in fondo perché ciò non avvenisse?...

L'11 giugno segna il destino di Pantelleria. Fra le 11 e le 11,40 una potente formazione navale alleata bombarda i principali obiettivi dal mare, mentre dal cielo un centinaio di Fortezze volanti sganciano il loro carico micidiale. L'isola era ormai coperta da alte cortine di fumo nero. Un vero inferno. Ma il generale Eisenhower, comandante delle forze alleate in Mediterraneo, che aveva compiuto su una nave il periplo dell'isola, era ugualmente preoccupato per la scarsità di punti adatti allo sbarco delle truppe che, al largo, attendevano di entrare in azione. Inopinatamente, nel primo pomeriggio, l'ammiraglio Gino Pavesi, comandante militare dell'isola, chiedeva la resa. Aveva ottenuto l'autorizzazione dallo stesso Mussolini facendogli credere che la totale mancanza di acqua non consentiva più ai nostri reparti alcuna concreta possibilità di resistenza. Gli anglo-americani sbarcati a Pantelleria si limitarono a fare prigionieri i nostri 11.000 militari, e a catturare le vaste provviste di cui erano dotati.

Nessuno di noi alla Decima era preparato a un colpo così duro, anche se da mesi la situazione della Marina non era chiara: qualcosa nell'ingranaggio della guerra non funzionava. Ne avevo parlato varie volte con alcuni colleghi e insieme avevamo tentato di capire il perché dello scarso rendimento delle operazioni navali

Da quel momento tutte le risorse italiane dovrebbero convergere verso l'unico fronte rimasto all'Italia. Tutte le armi prodotte dall'industria italiana dovrebbero essere avviate in Libia, scortate dalle migliori e più potenti navi. Tutta l'aviazione dovrebbe essere riservata per i bisogni dell'Africa Settentrionale, il massimo numero di aerei dovrebbe dirigersi verso gli aeroporti della Tripolitania e della Cirenaica. Ma per la Libia non si vogliono sciupare mezzi. Il generale Pricolo ritiene che la guerra in Africa Settentrionale non richieda che una piccola parte delle forze aeree. Le richieste di Porro sono giudicate alquanto esagerate. Da luglio fino a ottobre arrivano dall'Italia settantacinque apparecchi da caccia, quarantuno da bombardamento, trentotto Breda 88 d'assalto e quindici da ricognizione, appena sufficienti per rimpiazzare le perdite e il logoramento. I Breda, però, si rivelano inutilizzabili: non riescono neppure a staccarsi dal suolo. Ne partono due per prova da Bengasi con carico di bombe ridotto a metà, ma a sud di Tobruk debbono atterrare. Non riescono a virare per rientrare alla base.

Visti i risultati, sono privati dei pezzi utilizzabili e disseminati sul terreno come bersagli civetta. II generale Pricolo, responsabile di aver fornito ai combattenti in Africa Settentrionale aerei che non volano, non è tradotto davanti a una Corte Marziale.

Questo dimostra la fondamentale ingenuità di Mussolini, che indulge di fronte a un così grave atto di sabotaggio e sembra non comprendere come lo stato di guerra, situazione eccezionale, richieda provvedimenti eccezionali. Anche nell'assegnazione di rinforzi terrestri si segue un criterio restrittivo.

Su mille autocarri richiesti a suo tempo da Balbo, in cinque mesi ne arrivano appena quattrocento, mentre venticinquemila su quarantaduemila requisiti sono accantonati per una progettata spedizione contro la Jugoslavia. In realtà le forze di cui l'Italia dispone, utilizzate da altri cervelli, potrebbero dare diverso corso alla guerra in Africa Settentrionale.

Nella valle del Po si trovano due divisioni motorizzate, la Trieste e la Trento, tra le migliori del mondo quanto ad armamento e addestramento. Ci sono poi due divisioni corazzate, l'Ariete e la Littorio. Queste quattro unità, già raggruppate in Corpo d'Armata corazzato, troverebbero nel deserto africano il terreno più adatto al loro impiego. Sono invece trattenute in patria. È vero che i carri leggeri inglesi sono più efficienti e in numero doppio di quelli italiani, ma gli italiani hanno il doppio di carri medi. Infatti la divisione corazzata inglese non ha che sessanta Cruiser, contro centoquaranta carri M italiani. Il Comando italiano avrebbe, dunque, le forze per tentare almeno di togliere l'iniziativa al nemico e volgere la situazione in suo favore. Invece, il 29 gennaio ordina lo sgombero di Derna. Il 31 ha inizio una ritirata generale dì cinquecento chilometri, da Derna ad Agedabia. Rommel ha rilevato la doppiezza del Comando Superiore italiano, in cui l'uno disfa quello che l'altro fa, e avrebbe buon gioco per mettere i generali italiani di fronte alle loro incongruenze.

Ma preferisce non polemizzare: ricorda soltanto ad Aimone di aver mandato anche a Bastico copia della lettera del 12 settembre. E che Bastico ha risposto di condividerne la sostanza. Il 4 novembre Aimone è costretto a lasciare il comando dell'Aviazione libica. Cinque giorni dopo, nella notte dal 9 al 10 novembre, i preparativi per l'offensiva contro Tobruk subiscono un altro grave colpo. Un convoglio di sette piroscafi, carichi di materiali e viveri per la Libia, è attaccato al largo di Siracusa. Gli incrociatori di scorta, al comando dell'ammiraglio Brivonesi, abbandonano il convoglio. Nell'allontanarsi sparano proiettili illuminanti, rischiarando i piroscafi, che sono più facilmente affondati da quattro piccole navi inglesi.

Il battaglione italiano si è tanto rafforzato nella posizione da mettere in fuga i carri armati inglesi che hanno tentato di avvicinarsi. La posizione è importante, è una posizione chiave: permetterebbe alle forze britanniche, dentro e fuori Tobruk, di ricongiungersi. Si potrebbe rafforzarla o almeno tenerla un giorno ancora, e permettere a Rommel di spazzare con le sue divisioni corazzate l'esigua forza rimasta ad Auchinléck in Egitto. Ma qui avviene qualcosa di illogico. Dopo il tramonto, continua il racconto di Odorici, a mezzo di un autocarro che sono riuscito ad avviare alle retrovie per rifornirmi di acqua e viveri, mi giunge l'ordine di sganciarmi dal nemico e di ripiegare dietro il Comando di Divisione. (Le perdite subite dal battaglione sono veramente esigue: dieci morti, ventisette feriti, due cannoni, e una mitragliatrice fuori uso).

Così, nella notte sul 28 novembre, senza motivo e senza combattimento, per ordine del comando, gli italiani sgombrano volontariamente El Duda, baricentro della battaglia della Marmarica, che gl'inglesi per dieci giorni avevano cercato di conquistare senza riuscirvi. Il battaglione che la presiedeva aveva subito perdite lievissime, non era accerchiato, lo spirito dei suoi uomini era alto. E invece dell'ordine di resistere ad oltranza, il camion della spesa viveri gli ha portato quello di ritirarsi. Dentro il corridoio, ormai chiuso a nord, é rimasta l'ultima brigata della divisione neozelandese, sostenuta da un centinaio di carri inglesi. Rommel vuole imbottigliarli, chiudendo l'ultimo sbocco col Corpo d'Armata di Gambara: l'Ariete è già sul posto, la Trieste dovrà accorrere da Bu-Cremisa. Per l'Ottava Armata inglese sarebbe la catastrofe. All'alba del primo dicembre, il generale Piazzoni riceve ordine da Rommel di approntare subito la sua divisione. Dovrà essere in marcia per le sette e trenta. Inoltre Rommel desidera incontrare Piazzoni alle sette, all'osservatorio di Bu-Cremisa. Ma Piazzoni non fa compiere alcun preparativo di partenza. Si presenta tuttavia all'appuntamento con Rommel, dove trova anche il generale Franceschini, comandante della Pavia. Neppure allora Piazzoni comunica ordini alla Trieste. Né Gambara, che sa del convegno, gli chiede che cosa sia stato deciso. Solo qualche ora dopo domanda indirettamente notizie della Trieste al capo di stato maggiore di un'altra unità: risulta che la Trieste debba muoversi? La risposta, necessariamente vaga, è: Pare di sì.

Sembra privo di ogni logica che Gambara cerchi da altri le informazioni che potrebbe avere direttamente, e che Piazzoni, a sua volta, non comunichi notizie al proprio superiore. È strano, insomma, che i due generali si ignorino. Ma il gioco è sottile: l'uno frappone indugi e impedimenti all'esecuzione degli ordini di Rommel, l'altro mostra di conoscerli vagamente, quasi per sentito dire. Intanto la Trieste prepara tranquillamente il primo rancio della giornata.

Non vedendo comparire la divisione, che dovrebbe essere in marcia da circa tre ore, Rommel piomba a Bu-Cremisa verso le undici. Lo vede il colonnello Ricciardi, comandante dell'artiglieria della Trieste, mentre dall'alto del suo automezzo inveisce contro Piazzoni per il ritardo nell'inizio del movimento della divisione. Anche Odorici, reduce da El Duda, assiste al cicchetto: L'Eccellenza Rommel si è messo a urlare arrabbiatissimo, ritto sulla sua auto.

Piazzoni, a questo punto, non può più tergiversare. Tuttavia non convoca i comandanti dipendenti, non li informa ancora circa i compiti che la divisione dovrebbe assolvere. Si affida al telefono. Appena Rommel si è allontanato fa chiamare dal suo capo di stato maggiore il Sessantaseiesimo fanteria. La ricezione è disturbata e prende il microfono personalmente il comandante, il colonnello Fabozzi. Il Sessantaseiesimo parta e segua il Trigh Capuzzo. Obiettivo Abiar en Nbeidàt. Il Nono bersaglieri si terrà arretrato sulla destra. È tutto. Con quattro ore e mezzo di ritardo, la Trieste si mette finalmente in marcia. Ma ormai la brigata neozelandese e i cento carri armati britannici sono usciti dal corridoio. Uno sbocco provvidenziale è rimasto aperto, a causa del ritardo con cui Piazzoni ha fatto partire la Trieste. Neppure nell'imminenza di una grande battaglia, Gambara si reca presso le divisioni del Corpo d'Armata che pure porta il suo nome. Nel suo diario dice che, appena ricevuta la comunicazione di Rommel, alle quindici e quarantacinque, ha inviato loro un messo con quest'ordine: Questa notte l'Ariete si schieri nella zona di Sidi Rezegh Bu-Cremisa, e la Trieste a sinistra dell'Ariete fino a Sidi Muftàh, con fronte a sud. L'ordine non è mai stato trasmesso. Esiste solo nel diario. L'Ariete, infatti, rimane ferma a Gars el Arid, né Gambara la sollecita a muoversi. Quanto alla Trieste, lungi dal marciare verso il nemico, ripiega. Il generale Piazzoni, che il 27 novembre ha ordinato lo sgombero di El Duda, che il primo dicembre ha impedito alla sua divisione di congiungersi con l'Ariete, nella notte dal 4 al 5 la guida lungo il Trigh verso Sidi Re zegh, allontanandola ancor più dalla divisione corazzata. I calcoli del generale Auchinleck, basati sulla certezza che i comandi avversari avrebbero evitato la lotta, cominciano a dimostrarsi esatti, sia pure in ritardo. Nella notte sul 5 dicembre, mentre divisioni corazzate tedesche puntano su Bir el Gobi, le divisioni del Corpo d'Armata Gambara restano ferme, quando non si allontanano addirittura dal campo di battaglia. L'accerchiamento progettato da Rommel non potrà realizzarsi. La mattina del 5 dicembre, alle undici, Gambara telegrafa a Piazzoni, che durante la notte ha raggiunto l'aeroporto di Sidi Rezegh: Spostati massima urgenza a contatto con Pavia zona Bu- Cremisa. Avverti appena giunto. Questa nuova tappa verso ovest aumenterà la distanza della Trieste dall'Ariete, sempre ferma a Gars el Arid. Una collaborazione tra le due divisioni è diventata impossibile. Dal momento in cui ha ricevuto il telegramma di Rommel a quello in cui spedisce l'ordine per Piazzoni, sembra che non sia trascorso nemmeno un secondo.

Ma la Trieste non si muove: neanche questo telegramma è stato spedito. Anzi il generale Piazzoni ha ricevuto un ordine da Gambara, alle quattordici e trenta del 5 dicembre, molto diverso: rompere il contatto col nemico e ripiegare verso la zona di Bu-Cremisa. Niente appuntamento con le divisioni corazzate tedesche, nessun accenno alla battaglia ingaggiata già da mezz'ora, silenzio sui Giovani Fascisti. Solo un ordine di ripiegare evitando la lotta. L'Ariete è sempre ferma a Gars el Arid. II Corpo d'Armata Gambara ha disertato il campo di battaglia senza saperlo, per opera del suo comandante. Ma la Trieste e l'Ariete dovranno pur arrivare. Giovani Fascisti e Divisioni corazzate tedesche continuano a combattere e ad attendere fino all'imbrunire, inutilmente. La sera stessa, dice Gambara, alle diciotto e trenta ordino alla Trieste di raggiungere la pista El Adem-Bir el Gobi e di portarsi entro la notte a Bir el Gobi, dove già si trovano le divisioni corazzate tedesche Non parla dell'Ariete: ha già escluso dalla battaglia proprio quella divisione che dovrebbe formare la parte più consistente dell'ala sinistra. Non basta: cerca il modo di non fare intervenire nemmeno la Trieste. All'una e trenta dopo mezzanotte Calvi di Bergolo è incaricato di fare una comunicazione a Rommel da parte di Gambara: la Trieste è in tali deplorevoli condizioni da non poter partecipare alla battaglia.

È appena giunta in vicinanza di El Adem e non è assolutamente in grado di proseguire. I soldati sono esausti, non hanno acqua da due giorni, hanno dovuto aprirsi la strada a viva forza. Viveri, munizioni, carburanti scarseggiano. Il generale Piazzoni, secondo Gambara, si è recato al Comando del Corpo d'Armata di Manovra, a El Adem, e ha illustrato lo stato miserando della sua divisione. La Trieste ha bisogno di riposare e riordinarsi. Nulla di vero. La pietosa storia dei soldati arsi dalla sete è inventata. L'acqua, i viveri, le munizioni, il carburante non mancano. La Trieste, partita solo all'imbrunire dalle vicinanze dell'aeroporto di Sidi Rezegh, sta ancora marciando, non è stata disturbata, non ha combattuto, non si è aperta la strada a viva forza. All'alba del 6 dicembre, mentre Azzi impartisce queste disposizioni, giunge a Gambara, tramite Calvi, la risposta di Rommel. Quindicesima e Ventunesima sono entrate di nuovo in combattimento. Senza il concorso dell'Ariete e della Trieste non sarà possibile accerchiare gli inglesi. Giovani Fascisti e divisioni tedesche correranno gravi rischi.

Ma al comando italiano non hanno fretta: nemmeno di aiutare i connazionali. Gambara, tranquillo, risponde a Rommel: farò partire la Trieste, dopo che si sarà riordinata. Dell'Ariete non parla più. E il riordinamento è solo un pretesto per prender tempo. La Trieste, nello spostarsi da Sidi Rezegh a Bu-Cremisa, non ha combattuto, non ha avuto morti né feriti, si è rifornita appena arrivata, i soldati riposano sugli automezzi o nelle vicinanze. Basterebbe suonare la sveglia. Ma, alle sollecitazioni di Rommel, Gambara ribadisce infastidito: È inutile dare ordini che non possono essere eseguiti.

Basterebbero a Gambara meno di cinque minuti per recarsi da El Adem a Quota Centosettantasette di Bu-Cremisa, dov'è Piazzoni. Oppure potrebbe chiamare a El Adem il comandante di divisione. Ma ancora una volta i due generali, come sei giorni avanti, il primo dicembre, si evitano. Dopo un'altra ora e mezzo, alle nove, Piazzoni comunica al corpo d'armata: in questo momento parte il Sessantaseiesimo fanteria, meno un battaglione, con un'avanguardia di motociclisti. Il resto della divisione seguirà immediatamente.

Ma nello stesso istante in cui ha fatto questa comunicazione, il generale ha radiotelegrafato al Sessantaseiesimo: Novità N.N., ossia, in gergo militare, rimanete ai vostri posti. Il tempo passa e, nonostante i telegrammi, non arriva nessuno. Dov'è Gambara? È l'insistente ritornello del generale Cruwell, mentre le sue divisioni e i Giovani Fascisti continuano a combattere. Partita alle nove o alle otto e mezzo che fosse, un'ora doveva bastare alla divisione italiana per coprire i venti chilometri che la separavano dalle divisioni tedesche. Ne sono passate tre e non si è ancora visto neanche uno dei settemila uomini della Trieste. In cambio continuano le assicurazioni di Gambara: alle undici e trenta un altro dispaccio annuncia che la divisione sta marciando su due colonne, una al comando del generale Azzi, l'altra di Piazzoni. Nello stesso momento, Piazzoni sta ripetendo alla divisione, sempre accampata a Bu-Cremisa: Novità N.N..Ogni mezz'ora, puntualmente e invariabilmente, anche nel pomeriggio, la radio della Trieste continua a ricevere lo stesso segnale. L'ultimo Novità N.N. è delle quindici e trenta. II generale Gambara sta piangendo come un bambino, riferisce meravigliato Taddei ai compagni. Nessuno sa spiegarsi il perché di un fatto così insolito. La giornata è stata tranquilla: da quali preoccupazioni è sconvolto il comandante del corpo d'armata? Ma Gambara è disperato perché si rende conto di ciò che ha fatto, né può scusarsi col dire, come il primo dicembre, che non era a conoscenza del piano tedesco: stavolta Rommel glielo ha comunicato direttamente. Non può invocare il pretesto di aver voluto salvaguardare la priorità del comando italiano su quello alleato. Quando il piano tedesco gli era stato comunicato, prima della battaglia, poteva respingerlo, se gli sembrava inattuabile: non fingere di accettarlo per poi sabotarne l'esecuzione. Almeno per umanità, se non per dovere, avrebbe dovuto aiutare i connazionali in pericolo a Bir el Gobi. Insensibile a entrambi i sentimenti, Gambara si è reso strumento di rovina per l'esercito italiano e per il suo alleato in Africa Settentrionale. Ventiquattromila italiani e quattordicimila tedeschi morirono, furono feriti o dispersi nella battaglia della Marmarica.

Lo scontro si fa sempre più aspro. Rommel perde il controllo di sé nel rievocare quello che è accaduto. Tre settimane di combattimenti e di continui successi avrebbero potuto concludersi in una decisiva vittoria: invece italiani e tedeschi sono costretti a ripiegare. E gli inglesi, battuti continuamente, fuggiti due volte oltre frontiera, per colpa di Gambara, che nei momenti culminanti della battaglia ha fatto puntualmente mancare il concorso italiano, si accingono ancora una volta a marciare sulla Cirenaica.

Abbandonerò le truppe italiane, condurrò le mie divisioni in Tunisia e mi farò internare dai francesi, grida Rommel. Westphal e Cause, il capo di stato maggiore del Panzergruppe Afrika, annuiscono. Bastico va ad appartarsi con gli ufficiali del suo seguito in un angolo del torpedone, aspettando che il tedesco si calmi, ma Rommel urla di nuovo: Vi abbandonerò al vostro destino! Andrò con le mie truppe in Tunisia a farmi internare! E mentre Bastico gli fa cenno con le mani di calmarsi, il generale tedesco, fuori di sé, urla per la terza volta, ancora più forte, la stessa minaccia. Si vede bene che è pronto a tradurla in atto. Bastico si avvicina di nuovo. Finalmente non muove più obiezioni: le disposizioni per il ripiegamento, quelle almeno, saranno osservate. Sono le due del pomeriggio quando gli ufficiali italiani scendono dal torpedone di Rommel per rientrare alle loro sedi, dopo aver firmato il verbale di questo eccezionale incontro. Bastico ritiene più opportuno nascondere il documento da cui risulta la disobbedienza agli ordini superiori e la defezione di Gambara di fronte al nemico: non manda perciò al Comando Supremo il verbale del suo incontro con Rommel. Mussolini non dovrà sapere ciò che è avvenuto, né per colpa di chi la battaglia della Marmarica è stata perduta.

Galeazzo Ciano, uscito dal Consiglio dei Ministri, il 29 aprile 1939, si precipitò ad annotare sul suo Diario: Mussolini è decisamente scontento. E stata fatta un'inflazione di uomini ed il numero delle divisioni viene moltiplicato, ma in realtà queste sono cosi ridotte, da essere appena più forti di un reggimento. I depositi sono sguarniti, l'artiglieria è vecchia, le armi antiaeree e anticarro mancano del tutto. Il bluff è stato grande nel settore militare e il Duce stesso ne è rimasto ingannato. Ma si tratta dì un bluff tragico.

Non parliamo dell'aviazione: Giuseppe Valle (capo di Stato Maggiore dell'Arma e sottosegretario di Stato per l'aria fino all'ottobre del 1929) dichiara di avere 3.006 apparecchi disponibili, mentre i servizi di informazione dicono che ne abbia soltanto 982. Una grossa differenza. Se a tutto ciò si aggiunge la forte anglofilia degli alti comandi navali a Roma, non ci si può più stupire che la maestosa flotta italiana abbia miseramente fallito ed il sogno del mare nostrum diventò presto un incubo. La 3a squadra navale (amm. Duplat), formata da quattro incrociatori, scortati da undici cacciatorpediniere, bombardò Genova e la costa tra la città e Recco, difese dagli italiani con la vecchia torpediniera Calatafimi (ten. di vascello Giuseppe Brignole) e con una squadriglia di siluranti agli ordini del tenente Parodi. A meno di duecento chilometri, nell'importante base navale della Spezia si trovava alla fonda mezza flotta italiana! L'occasione buona si presentò il 30 agosto, quando la flotta britannica diede inizio all'operazione Hats (Cappelli), il cui scopo era quello di rifornire Malta con le due squadre di Gibilterra e d'Alessandria d'Egitto che, data la posizione geografica, la flotta italiana avrebbe potuto affrontare e battere separatamente. Cosi il 31, con lo scopo di intercettare il nemico, uscirono da Taranto cinque corazzate (Littorio, Vittorio Veneto, Giulio Cesare, Conte di Cavour e Caio Duilio), scortate da sei incrociatori e ventisette cacciatorpediniere. Il risultato di questa operazione fu nullo, se si esclude il carburante sprecato. Infatti la caccia all'inglese si svolse mantenendosi a distanza di sicurezza dalla preda, la quale ebbe anche modo di bombardare le isole italiane dell'Egeo e di concludere brillantemente il 6 settembre l'operazione Hats, lamentando solo lievi danni sull'incrociatore Cornwall, a causa di una bomba d'aereo. Ormai il mare nostrum si trasformava sempre di più in un lago britannico, con tutte le conseguenze immaginabili per le operazioni terrestri nell'Africa settentrionale. Se si pensa che Cunningham aveva ricevuto in quei giorni la corazzata Valiant e la nuova portaerei Illustrious non si può non affermare che la strategia di Supermarina sembrò fatta su commissione dei britannici perché loro si rafforzassero e divenissero invincibili. Il bombardamento fu condotto alle 8 del mattino dall'ammiraglio Sir James Fownes Somerville con 2 corazzate, 1 portaerei, 1 incrociatore e 10 cacciatorpediniere che scaraventarono sulla città 1.055 proietti che causarono la morte di 144 cittadini e ne ferirono altri 272. La flotta italiana, forte di 3 corazzate, 3 incrociatori pesanti e 10 cacciatorpediniere, restò, come sempre, chiusa alla Spezia. Indubbiamente però, la presenza di un Franco Maugeri, capo di Stato Maggiore della marina dal dicembre del 1946 al novembre del 1948, alla carica di capo del servizio segreto navale durante il conflitto e che stranamente ottenne una decorazione americana nel 1946 per importanti servizi resi mentre rivestiva il suddetto incarico, induce a pensare che la teoria del tradimento non sia stata sempre campata in aria. Dal 4 gennaio le truppe dell'Asse, sotto un furioso temporale, si erano sistemate sulla nuova linea di resistenza, ma per Rommel la migliore difesa era l'attacco.

Così, il 13, egli decise di ripassare all'offensiva, onde evitare una nuova avanzata britannica, che avrebbe voluto dire sconfitta sicura. Tuttavia non fece parola della sua idea né al suo superiore, Ettore Bastico, né ai vertici della Wehrmacht di Berlino. Temeva infatti che Bastico e l'OKW avrebbero comunicato la cosa al Comando Supremo di Roma e, ciò era risaputo, sarebbe stato come comunicarlo a Londra, visto che nella capitale italiana i segreti trapelavano molto facilmente e puntualmente giungevano alle orecchie britanniche. Pantelleria era stata trasformata nel 1938 dall'architetto Pier Luigi Nervi in una fortezza dotata perfino di aviorimesse sotterranee e, per questo motivo, era stata definita, con enfasi, l’Antimalta italiana.

Comandante dell'isola era l'ammiraglio Gino Pavesi, da cui dipendeva il generale Mattei, ai cui ordini era la guarnigione, forte di circa 11.000 uomini. La situazione della difesa non era molto buona: sulle 54 o 44 batterie costiere solo 21 erano funzionanti e sui 150 aerei previsti ve ne erano al massimo una dozzina; Pavesi, infatti, aveva indotto quel mattino Mussolini a dare il suo assenso alla resa. Solo Stalin ed il Mikado possono ordinare di combattere fino all'ultimo uomo, disse il Duce per giustificare il suo assenso e comunicò a Pavesi: Chiamate Malta e dite che, per penuria d'acqua, cessate ogni resistenza! Si trattava di un abuso di fiducia (e Mussolini se ne rese poi conto): infatti i micidiali bombardamenti avevano distrutto soltanto due batterie e causato la morte di 35 militari e di 3 civili. Inoltre proprio lo stesso giorno della resa la 2a flotta aerea tedesca aveva inviato uno JU-52 che, atterrando all'aeroporto di Margana, aveva portato sull'isola con grande rischio dei rifornimenti d'acqua e se ne era andato promettendo di tornare con dell'altra. Una resistenza, anche se limitata nel tempo, era dunque possibile. Per bloccare l'avanzata britannica non restava perciò che il gruppo Schmalz, che da Catania si diresse contro il nemico, anche nella convinzione che sarebbe stato appoggiato dalla divisione Napoli, ma questa, senza aver sparato un colpo, si arrese il 13 sulla strada tra Palazzolo Acreide e Sortino alla 4a brigata corazzata britannica (generale Cavet) ed il comandante, Giulio Cesare Gotti-Porcinari, attese anzi i britannici tranquillamente seduto alla sua mensa! Respinto dunque il contrattacco tedesco tra il 12 ed il 13, l'8a armata britannica raggiunse nelle prime ore del 13 luglio la base navale di Augusta che, pur essendo munita di pezzi da 381 mm, di 17 batterie contraeree e di un treno blindato, era stata sabotata ed abbandonata senza combattere la sera del 10 dal contrammiraglio Priamo Leonardi e dai suoi uomini a due incrociatori britannici presentatisi davanti alla rada. Il contrammiraglio e quattro dei suoi ufficiali furono per questo tradotti davanti ad una corte marziale e condannati a morte, ma il re concesse loro la grazia. Del resto ormai non si trattava più di un episodio isolato. Lo stesso giorno le truppe della 213a divisione costiera (generale Carlo Gotti), presso Catania (la piazza era comandata dal generale di brigata Azzo Passalacqua), abbandonarono le batterie costiere prima ancora che giungessero i britannici ed incominciarono a ritirarsi su Messina. Ad ogni modo il 22, dopo una marcia di quattro giorni, il generale Geoffrey Keyes poté entrare da liberatore a Palermo, dove il generale di brigata Giuseppe Molinero firmò al Palazzo Reale la capitolazione della piazza, che si arrese senza resistenza. In pratica tutta la marcia sul capoluogo era costata agli americani 57 morti, 45 dispersi e 170 feriti. Sembra, infatti, che Domenico Cavagnari sia stato in contatto, direttamente o indirettamente, con un intermediario svedese, per far arrendere la flotta italiana con due anni e mezzo d'anticipo, ai primi del 1941. La flotta, o parte di essa, avrebbe dovuto raggiungere la Colonia italiana antifascista della Cirenaica, al tempo sotto occupazione britannica. Le trattative, iniziate nel novembre del 1940, incoraggiarono talmente Londra da far nascere, per la prima volta, l'idea di uno sbarco in Sicilia (27 dicembre 1940), che ricevette il nome di operazione Influx. La ripresa dell'Asse, nella primavera del 1941, riportò però tutto in alto mare. Ciò che spicca in quella vicenda sono essenzialmente tre punti. Innanzitutto, secondo Londra, gli equipaggi delle navi che si sarebbero consegnate prigioniere non sarebbero stati costretti a combattere contro l'Italia, ma se l'avessero voluto fare di propria spontanea volontà, avrebbero ricevuto la stessa paga concessa ai marinai della Royal Navy. In secondo luogo il fatto che Londra, nel febbraio del 1942, offrisse del denaro per corrompere degli ufficiali della marina italiana ed indurli a disertare con le proprie unità, dimostra che i britannici non consideravano i loro interlocutori mossi da motivi patriottici e ciò impedisce ogni parallelo con gli ufficiali, per esempio, della (Germania Libera).

In terzo luogo la paura di perdere la propria vita dovette essere in questi individui più forte del desiderio di guadagnare soldi ed il risultato fu che nessuna nave italiana fu consegnata volontariamente ai britannici prima dell'armistizio del 1943. Di tutto questo pissi pissi bau bau rimane perciò una cosa: l'attività (per non usare termini peggiori) degli ufficiali filobritannici della marina italiana si svolse nel campo dello spionaggio a favore del nemico e nel campo delle azioni tendenti a sabotare la guerra.

Il primo fu la causa della morte di innumerevoli marinai italiani, volgarmente pugnalati alla schiena; le seconde si manifestarono nell'inerzia di Supermarina al tempo dell'ammiraglio Domenico Cavagnari e, in minor misura, anche dopo il suo siluramento.

A fine novembre 1942, il duca Aimone di Spoleto, re di Croazia e fratello dell'ultimo viceré d'Etiopia, incaricò il console italiano a Ginevra, Luigi Cortese, di informare il colonnello inglese Victor Farrel del Secret Service che era disposto a rovesciare (assieme al principe ereditario) Mussolini e a sganciare l'Italia dalla Germania. Il tutto a condizione che gli fosse assicurata (oltre che il mantenimento della monarchia italiana) la collaborazione delle armi alleate, tra cui la RAF per fronteggiare l'aviazione tedesca e quella... italiana! Una proposta che, poiché effettuata da un re (anche se nominale) di una potenza alleata, e che doveva il suo titolo proprio a Mussolini, era, a dir poco, indegna.

La febbre cospirativa che aveva investito un poco tutti, sfaccendati, blasonati, generali sconfitti in battaglia, finanzieri ed industriali terrorizzati dal domani, perfino ministri, riuscì però anche ad ingenerare in Churchill le speranze da lui formulate. Tuttavia il coraggio dei cospiratori era scarso, il pericolo abbondante e a questi mancava la stoffa, la credibilità e, soprattutto, la forza, mentre talvolta agivano persino con ingenuità, sotto l'occhio vigile del SIM che, coadiuvato anche dalla Gestapo, era pronto a vanificare le iniziative, punendo i piccoli e neutralizzando i grandi. E tutti questi cospiratori da fine settimana furono ancora fortunati, visto che Mussolini, malgrado le sue manie romane, non usava dare i suoi amici in pasto ai leoni! Come inquietante postilla all'operato dei servizi segreti in Corsica vale la pena di trascrivere dalle considerazioni del capo Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito il brano dedicato al generale Giacomo Carboni, comandante del VII corpo d'armata stanziato nell'isola: secondo le accuse del dottor Petru Giovacchini, capo degli irredentisti corsi filoitaliani, il generale Carboni mantenne in questo periodo intelligenza col nemico, specie tramite un suo fido, il console della MVSN Umberto Cagnoni, che si legava col rappresentante di Giraud in Corsica, comandante di squadrone della gendarmeria Paul Colonna d'Istria, detto Cesari.

A inizio 1943 l'antitedesco Carboni capo del SIM nel 1939-40 e di nuovo nell'estate 1943 prevede la caduta del regime e persegue un preciso progetto politico, che punta a utilizzare la Corsica come moneta di scambio per collegarsi col generale De Gaulle e sostituire all'Asse Roma - Berlino l'alleanza Roma - Parigi.

Colonna d'Istria, sbarcato il 4 aprile 1943 da un sommergibile inglese sulla costa orientale, in breve tempo aggrega i gruppi indipendentisti nel Fronte nazionale e costituisce il comando unico della resistenza corsa. Il colonnello Umberto Cagnoni, comandante del reggimento di Bastia, nella primavera 1943 s'incontra segretamente con dirigenti irredentisti, cui offre collaborazione impegnandosi tra l'altro a controllare il porto di Bastia per favorire un eventuale sbarco alleato; successivamente egli trasmette una serie di notizie di rilievo militare sulla disgregazione delle difese italiane. I comandanti delle diverse armi non hanno avuto il coraggio di raccontargli che l'aviazione e la fanteria sono inadeguate per armamento e addestramento, che la marina è sì imponente, ma tarpata dalla mancanza di portaerei e per di più animata da fieri sentimenti antigermanici, con ammiragli scarsamente vogliosi di battersi. Vent'anni fa a Londra spuntarono documenti in cui veniva asserito che nell'estate del '40 le navi italiane erano state offerte per alcuni milioni di sterline. Anziché appurare se si trattava di volgari menzogne o di clamorose rivelazioni, si preferì far finta di niente. Eppure negli appunti di Churchill di fine '41 si parla del denaro necessario ad allettare alcuni ammiragli che da Roma avevano allacciato contatti tramite diplomatici svedesi.

Praticamente a riposo da un paio d'anni, Gustavo Pesenti, genovese, deve la carriera a Badoglio, che dopo la campagna d'Eritrea l'aveva spedito quale proprio fiduciario a comandare nel '39 il fronte somalo.

Allo scoppio delle ostilità, tutto preso dal suo sogno di mettere in musica la Divina Commedia, Pesenti non s'era accorto che i britannici gli avevano soffiato una brigata coloniale. Il quartier generale l'aveva appreso dal compiaciuto bollettino di radio Nairobi. Amedeo d'Aosta era volato a Mogadiscio, dove il generale, anziché giustificare la figuraccia, gli aveva detto che così quelli di Roma imparavano a dichiarare guerra all'Inghilterra. Se siamo ancora in tempo, aveva concluso Pesenti, vediamo di concludere una pace separata. I fatti si sarebbero incaricati di dargli ragione, ma lì al fronte, con un nemico da combattere e con un morale che era già sotto le scarpe, al viceré d'Etiopia non era rimasto altro che caricarlo sul primo aereo e rispedirlo in Italia. Aimone d'Aosta, duca di Spoleto, impiega un suo collaboratore, Alessandro Marieni, appena nominato console a Ginevra, per sondare gli inglesi. Aimone ha infatti trovato una sponda importante nella marina. Il 7 novembre ha avuto un franco colloquio con l'ammiraglio Franco Maugeri, responsabile del servizio segreto navale. Entrambi hanno convenuto che bisogna fare piazza pulita del fascismo.

Tra le varie cose però che nutrirono le speranze di Eisenhower vi fu un incontro riservato che egli ebbe con un misterioso personaggio, il quale lo avvertì che il popolo italiano era pronto a far la pace a ogni costo. Eminenti personalità del governo italiano si erano infatti persuase di non poter vincere nemmeno se la parte con la quale si trovavano avesse vinto. Erano così desiderose di non inimicarsi gli Stati Uniti che i sommergibili erano stati ritirati dall'Atlantico. Il misterioso personaggio si riferisce all'inspiegabile ordine diramato quasi un anno prima, il 10 Dicembre 1941, da Supermarina e del quale abbiamo già dato conto.

L'identità dell'informatore di Eisenhower è rimasta inaccessibile, doveva però trattarsi di un militare o di un civile bene addentro ai pensieri, ai desideri, ai progetti ormai coltivati da larga parte del sistema. L'accenno ai sommergibili è illuminante e aumenta gli interrogativi sul comportamento della marina, sulle drammatiche partite che si disputarono in seno all'ammiragliato. Il riferimento alle eminenti personalità convinte di non poter vincere nemmeno se la parte con la quale si trovavano avesse vinto assomiglia molto a un'affermazione presente nelle memorie scritte dall'ammiraglio Maugeri per il pubblico di lingua inglese nel 1948 e alquanto differenti da quelle che sarebbero poi apparse in Italia nel 1980.

L'inverno del '42-'43 trovò molti di noi, che speravano in un'Italia libera, di fronte a questa dura, amara, dolorosa verità: non ci saremmo mai potuti liberare delle nostre catene, se l'Asse fosse stato vittorioso. Il famoso filo segreto che univa la monarchia e la massoneria italiane alle potenze nemiche s'irrobustiva ogni giorno di più e consentiva ai vertici militari e politici di Stati Uniti e Gran Bretagna di conoscere ciò che in teoria sarebbe dovuto rimanere sconosciuto. E una matassa ormai inestricabile di episodi e voci, di coincidenze e fatalità. In due libri (soldi truccati e L'esercito della lupara) è scritto che tra l'aprile e il maggio '43 una missione di ufficiali sabaudi fu paracadutata su Algeri per definire con l'alto comando di Eisenhower i dettagli dell'imminente invasione. La missione era guidata dal generale Giuseppe Castellano e comprendeva anche il capitano Vito Guarrasi, oscuro responsabile di un autoparco, e il tenente Galvano Lanza di Trabia. Se la vicenda fosse vera, e non risultano smentite ai due libri, andrebbe interamente riscritta la storia dell'armistizio.

Sarebbe la prova inequivocabile e definitiva che pezzi dello Stato, e che pezzi, trattarono con gli Alleati molto in anticipo sulla storiografia ufficiale e lo fecero nel territorio controllato da essi, non in una sede neutra come accadrà tra la Spagna e il Portogallo. E se questa missione fu compiuta, mentre i soldati italiani ancora combattevano e morivano contro gli anglo-americani in Tunisia, significa che talune scelte erano già state definite. A Washington venne altresì confermata la cattura della flotta fascista. Qualche accenno in proposito lo si trova pure nelle discussioni fra gli accompagnatori di Roosevelt e di Churchill a Casablanca, ma nella capitale statunitense avvenne l'annuncio ufficiale che la quarta flotta del mondo non sarebbe stata distrutta in battaglia o con bombardamenti preventivi nei porti, in cui aveva trascorso gran parte dei tre anni guerra, bensì sarebbe stata catturata. Dinanzi a tanta sicurezza echeggia il ritornello di sempre: stupefacente preveggenza dei vertici alleati o possesso di informazioni incontrovertibili?

L'ambiguo comportamento di alcuni ammiragli si è giovato nei decenni del lungo oblio con cui è stata avvolta in Italia la seconda guerra mondiale. Era una guerra persa ed era una guerra alla quale hanno appioppato la falsa etichetta di guerra fascista, quindi dimenticare, meglio non occuparsene più.

Ma è proprio così? Che a proclamarla sia stato l'aspirante borghesuccio di Predappio è indubbio, ma è altrettanto indubbio che a combatterla fu la generazione sfortunata dei ragazzi italiani, la quale non potè o non volle sottrarsi alla cartolina precetto. E a incidere sulla morte e sulla vita della generazione sfortunata in Africa, dentro i sommergibili, nelle navi da guerra e nei mercantili furono spesso le decisioni prese da Supermarina, la pomposa definizione dello stato maggiore navale. Il giorno della dichiarazione di guerra, il 10 giugno 1940, l'Italia possedeva la quinta flotta del mondo dopo USA, Gran Bretagna, Giappone e Francia.

La resa di quest'ultima trasformò la nostra flotta nella principale potenza del Mediterraneo. Un minuto dopo aver dichiarato la guerra, l'immediata priorità avrebbe dovuto essere Malta. Il protettorato britannico, fastidioso intruso nel mare nostrum fra la Sicilia e l'Africa italiana, rappresentava la classica banale influenza che se non fosse stata subito debellata si sarebbe trasformata in una micidiale polmonite. Tuttavia per due anni non furono approntati i piani d'invasione e per due anni ci si guardò bene dal chiudere la strettoia naturale esistente fra Pantelleria e le coste algerine. Sarebbe bastato piazzare un'adeguata copertura di mine, una manciata di sottomarini e un pò di navi da battaglia per impedire all'Inghilterra di approvvigionare l'isola e di tenervi quel minimo di incrociatori, di aerei e di sottomarini (la Forza K) che costituirono una molesta spina nel fianco. Occorse, a metà del '42, un deciso intervento di Doenitz e di Kesselring per collocare qualche mina in quel tratto di mare. I geni di Supermarina non ci avevano pensato. Neppure Badoglio e Cavallero si preoccuparono di approntare un'azione combinata. Nonostante a Malta continuasse a sventolare l'Union Jack, la supremazia nel Mediterraneo non era in discussione.

Per lo meno non lo sarebbe stata se fin dall'11 giugno 1940 la conduzione degli ammiragli seduti nelle comode poltrone dello stato maggiore non fosse stata improntata alla rinuncia, all'infingardaggine, all'assoluto disinteresse per la sorte di migliaia di marinai, vittime leali di giochi inconfessabili. Dalle navi colpite nella rada di Taranto al bombardamento di Genova, dall'assurda sconfitta di capo Matapan all'incredibile dietrofront di Punta Stilo e al patetico annaspare nel golfo della Sirte, due episodi in cui alla flotta inglese vennero risparmiate severe batoste. Supermarina fece di tutto per non fare la guerra agli inglesi. Churchill era seriamente preoccupato della sorte delle sue poche navi divise fra Gibilterra e Alessandria d'Egitto. Già il 17 luglio 1940 a Londra meditavano di abbandonare il Mediterraneo e di concentrarsi a Gibilterra. Ma il giorno dopo Cunningham, il comandante di Alessandria, invitava il governo a soprassedere: gli risultava che la flotta italiana non avesse alcuna voglia di combattere; inoltre pensava di sapere dove fossero posizionati i nostri cinquantacinque sommergibili che avevano preso il mare.

Cunningham non possedeva doti divinatorie: qualcuno da Roma aveva preso a spifferare rotte latitudini e longitudini. Mentre Churchill con i suoi azzeccati interventi contribuiva alla stoica resistenza del Regno Unito, Mussolini si rivelò un presuntuoso dilettante: non si accorse che la marina gli giocava contro, che il suo atteggiamento rinunciatario gli stava facendo perdere la guerra molto prima dell'intervento americano. È una vicenda complessa e intricata che prende il via con Domenico Cavagnari, capo di stato maggiore dal '34 al dicembre del '40. Era un genovese forte con i deboli, debole con i forti, del tutto prono dinanzi a Mussolini. Ancora nel '36 aveva bocciato il progetto per la costruzione di tre portaerei e difeso a spada tratta l'imbecille scelta del duce. Era contrario alla guerra per motivi che avrebbero dovuto portare alla sua immediata destituzione: lamentava l'impreparazione dei suoi uomini tuttavia aveva giudicato inutile l'addestramento per il combattimento notturno e si era opposto agli studi e agli esperimenti di un rudimentale radar.

Dopo il 10 giugno fu il primo teorico della salvaguardia a ogni costo della flotta senza che qualcuno, e principalmente Mussolini, gli chiedesse a quale scopo fosse stata allora allestita con un esborso enorme per l'erario: oltre quattordici miliardi di lire (circa sette milioni di euro). A Cavagnari si deve anche il rifiuto, per le solite gelosie di bottega, di una vera collaborazione con l'aeronautica, resa indispensabile dalla mancanza di portaerei. A Roma, fra una confidenza e una maldicenza, più di un ufficiale superiore sapeva che i mercantili partiti all'improvviso o che avevano cambiato la rotta prescritta erano giunti nel porto di destinazione e l'identica benevola sorte capitava ai sommergibili che per un qualsiasi motivo non seguivano le indicazioni di Supermarina.

Il più grande successo italiano, l'incursione dei maiali di De La Penne nel porto di Alessandria il 18 dicembre '41, ebbe come premessa l'assoluta segretezza con la quale il principe Junio Valerio Borghese, capitano di fregata e comandante del sommergibile Scirè, che trasportava i tre siluri a lenta corsa e gli eroici sommozzatori, circondò la missione.

Carlo De Risio e Roberto Fabiani nel loro splendido pamphlet (La flotta tradita) hanno esibito le prove documentali sui sospetti che erano quasi certezze aleggianti nelle stanze del SIM. Tali documenti però aprono un altro interrogativo: come mai Amè non intervenne direttamente? Come mai gli ammiragli sospettati d'intesa con il nemico rimasero tranquillamente nei loro incarichi? In quanti volevano perdere la guerra? E se perdere la guerra veniva ritenuta la via più breve per perdere il fascismo, era proprio necessario che tale via fosse costellata dei cadaveri di tantissimi marinai mandati a fondo nel Mediterraneo? Nel 1952 uno straordinario saggio di Antonio Trizzino (Navi e poltrone) squarciò il velo del silenzio. Trizzino era stato un ufficiale di aviazione e aveva provato sulla propria pelle la rabbia e il dispetto di tante missioni andate a male. Fu il primo a fare nomi e cognomi: l'ammiraglio Franco Maugeri, responsabile dell'Ufficio informazioni; l'ammiraglio Priamo Leonardi, comandante della piazzaforte di Siracusa e Augusta; l'ammiraglio Gino Pavesi, comandante di Pantelleria; l'ammiraglio Bruno Brivonesi, comandante dell'imponente scorta di sette piroscafi affondati il 10 novembre 1941 da due incrociatori leggeri. Il libro conobbe un successo straripante, la casa editrice Longanesi ne stampò venti edizioni, Trizzino si concesse l'enorme soddisfazione di essere assolto in appello dall'accusa di aver vilipeso il ministero della Difesa e di aver diffamato gli ammiragli Leonardi, Pavesi e Brivonesi. E dire che Trizzino non disponeva delle prove prodotte cinquant'anni dopo da De Risio e Fabiani, aveva soltanto annusato l'aria e capito bene quale vento spirasse. A differenza dell'aeronautica, la marina era stata sempre permeata di sentimenti antigermanici. E di massoni era composto quasi l'intero vertice della nostra flotta. Di conseguenza sussisteva una generale propensione verso la gloriosa marina britannica.

Su un simile comune sentimento pesavano poi altri fattori: sessantasette alti ufficiali erano sposati con donne straniere, quindi facilmente avvicinabili; due importanti ammiragli: Mario Farangola, alla guida dei sommergibili, e Vittorio Tur, titolare d'incarichi molto delicati, avevano mogli inglesi, mentre due capitani di vascello destinati a una folgorante carriera, Brivonesi e Alberto Lais, erano coniugati con un'inglese e un'americana. Le accurate ricerche di De Risio e di Fabiani ci dicono che pure tre capitani di fregata e cinque tenenti di vascello dividevano il letto con signore anglosassoni. Ma c'è di più: Vittorio Tur, nel '40 comandante in Albania, nel '41 comandante della Forza Navale Speciale che avrebbe dovuto espugnare Malta, nel '43 comandante prima in Provenza poi nel basso Tirreno, aveva un fratello, Enrico Paolo, tenente di vascello ed antifascista convinto, emigrato nel '22 in Francia. Anche gli americani, attraverso il Naval Intelligence, trovarono presto un canale preferenziale: si trattava di un giovane innamorato del cinema, Marcello Girosi, che dopo la guerra avrebbe fatto il produttore a Cinecittà. A quell'epoca Girosi esibirà una delle più importanti decorazioni militari statunitensi, la Silver Star. Sarà uno dei pochissimi civili al mondo a gloriarsene e la motivazione della medaglia ne spiega bene i motivi: Per aver contribuito a distaccare il comando della flotta italiana dal regime fascista nell'estate 1943 e per aver assicurato alla marina degli Stati Uniti importanti segreti di fabbricazione.

Il ministro della marina americana, William Knox, definì il materiale consegnato da Girosi di valore inestimabile. La fortuna degli yankee fu che Girosi aveva un fratello, Massimo, contrammiraglio della regia marina. Nel farne un ritratto ai suoi amici dell'OSS Marcello spiegò che si trattava di un antifascista dichiarato e di un acceso sostenitore della causa alleata. Massimo Girosi lavorò in due delicatissimi uffici: le Operazioni, cioè la cabina di regia di tutte le missioni, lì dove si stabilivano le rotte delle navi, dei sommergibili e si conoscevano le rotte dei mercantili e dei piroscafi in viaggio per l'Africa e il SIS, che in teoria avrebbe dovuto dare la caccia alle spie interne e agli agenti nemici. Molto in teoria. Nel maggio del 1941 era stato nominato responsabile del SIS paradossalmente lo stesso acronimo del servizio segreto britannico l'ammiraglio Franco Maugeri, siciliano di Gela. La sua prima battaglia racconta egli stesso nelle sue memorie, fu burocratica: imporre la propria persona nell'organigramma autorizzato a partecipare alle riunioni giornaliere di vertice. Quelle in cui si varavano le missioni più segrete.

Il vicecomandante del Naval Intelligence, il capitano Ellis M. Zacharias, nella sua autobiografia, Secret Missions, sostiene che sia le imboscate dei primi mesi di guerra contro i sommergibili italiani nel Mediterraneo e nel mar Rosso, sia gli altri interventi a colpo sicuro contro incrociatori e mercantili erano dovuti alle informazioni che filtravano dal ministero di Roma e dall'Ufficio informativo.

Sandro Attanasio in due vecchi libri (Sicilia senza Italia e Gli anni della rabbia) ha scritto senza ricevere smentita: che sede importantissima del Supersim (la cellula dei servizi segreti in combutta, secondo Attanasio, con gli anglo-americani.) fu la villa di capo Soprano, nei pressi di Gela, appartenente al principe Ferdinando Pignatelli d'Aragona-Cortez. La villa, già proprietà dell'ammiraglio Maugeri, era stata comprata all'inizio della guerra dal principe con rogito notarile stipulato a Roma. Fra l'altro aveva fatto costruire in muratura una specie di ponte di nave sormontato da un altissimo pennone, che, si sussurrava a Gela, somigliava a un'antenna RT.

Nel pomeriggio del 10 luglio 1943 un gruppo di compiti ufficiali alleati di stato maggiore fece lunghe visite di cortesia alle due ville. Da capo Soprano, dove c'era una stazione radio in collegamento con Malta (il cui operatore era un ufficiale in servizio all'aeroporto di Ponte Olivo), partirono gli atti a facilitare in Sicilia l'esecuzione degli accordi presi con gli Alleati.

Al termine del conflitto, poco prima di essere promosso capo di stato maggiore con Girosi capo della squadra, l'ammiraglio Maugeri ricevette la Legion of Merit per la condotta eccezionalmente meritoria nell'esecuzione di altissimi servizi resi al Governo degli Stati Uniti come capo dello spionaggio navale italiano. Per gli stessi altissimi servizi l'ammiraglio sarebbe potuto finire sotto inchiesta in Italia. E infatti un magistrato ordinario vide in quella motivazione la prova del tradimento, ma un magistrato militare archiviò riconducendo la prestazione degli altissimi servizi all'epoca della cobelligeranza. Maugeri affermò di essersi comportato secondo coscienza. Vergò un libro di memorie in lingua inglese (From the Ashes of Disgrace, – Dagli abissi della disgrazia), destinato al pubblico delle due potenze vincitrici. Probabilmente non si aspettava che ampi stralci venissero immediatamente tradotti in italiano.

Ne derivò una polemica violentissima. Maugeri infatti scriveva: L'Italia era piena d'inglesi e di italiani amici e simpatizzanti della Gran Bretagna, soprattutto tra l'aristocrazia. Io dubito che esistessero molte spie inglesi in Italia: essi non ne avevano davvero bisogno. L'Ammiragliato britannico aveva abbondanti amici tra i nostri ammiragli anziani e nello stesso ministero della Marina. Sospetto che gli inglesi fossero in grado di ottenere informazioni direttamente alla fonte.

In questo caso non c'era bisogno di spendere denari e sforzi per avere un esercito di agenti scorrazzanti per i fronti a mare di Napoli, Genova, Taranto, La Spezia. Sono considerazioni che starebbero bene in bocca a uno studioso, ma che stonano in bocca all'uomo che avrebbe dovuto dare la caccia agli informatori del nemico.

Scrive Maugeri nel suo From the Ashes of Disgrace: L'inverno del '42-'43 trovò molti di noi, che speravano in un'Italia libera, di fronte a questa dura, amara, dolorosa verità: non ci saremmo mai potuti liberare delle nostre catene, se l'Asse fosse stato vittorioso. E poco più avanti esplicita in maniera definitiva tale concetto: Più uno amava il suo Paese, più doveva pregare per la sua sconfitta nel campo di battaglia. Finire la guerra, non importa come, a qualsiasi costo. Tutto giusto, tutto condivisibile, tranne un dettaglio non irrilevante: i ragazzi italiani che andavano a morire sulle navi, affondate affinchè l'Asse non vincesse e perché la guerra andava conclusa a qualsiasi costo.

Il 15 marzo 1943 l'ammiraglio Karl Doenitz, nuovo capo di stato maggiore della marina tedesca, si presentò a Palazzo Venezia. II duce lo rassicurò sulla ferrea volontà di mandare navi da battaglia, stava per aggiungersi la più grande di tutti, la Roma, incrociatori pesanti e leggeri, cacciatorpediniere, siluranti e sommergibili a contrastare il prevedibile attacco al sacro suolo metropolitano. Dimostrando al solito di brancolare nel buio, Mussolini spiegò a Doenitz che l'obiettivo dell'invasione sarebbe stata la Sardegna e lì le nostre imbarcazioni avrebbero dimostrato di che acciaio erano forgiate.

A condizione, tuttavia, che il Terzo Reich fornisse la nafta necessaria a prendere il mare. Il povero duce aveva una volta di più abboccato all'amo degli ammiragli e di Ambrosio: la nafta c'era e in abbondanza.

Si trattava semplicemente dell'ennesima scusa, buona per prepararsi il terreno. Riccardi, comunque, incontrando Doenitz fu a parole molto rassicurante: le coste della patria sarebbero state difese fino all'ultima granata, dell'ultimo cannone, dell'ultimo guscio di legno galleggiante. Era l'esatto contrario di ciò che meditavano gli ammiragli nel segreto delle loro stanze. Gli occhi di tutti erano rivolti alla Sicilia, tuttavia gli Alleati per giungervi dovevano prima liberarsi di Pantelleria. Mussolini si vantava di averla trasformata in un paracarro, la propaganda fascista aveva persuaso l'opinione pubblica che fosse l'equivalente di Malta, una rocca inespugnabile. A differenza di Malta, era fin lì servita a poco, ma la colpa andava addebitata al comportamento degli ammiragli, e uno di essi, Gino Pavesi, la comandava. Poi avevano costruito un attrezzato aeroporto militare, un grande hangar a due piani dentro la roccia, diverse postazioni per l'artiglieria, molte delle quali collocate dentro caverne inaccessibili dal fuoco esterno. (La guarnigione comprendeva 12.000 militari. Avevano in dotazione oltre novanta cannoni settantacinque da 76, otto da 152, otto da 120, diciotto mitragliatrici da 20 millimetri e cinquecento mitragliatrici da 8). Scarseggiava l'acqua, ma abbondava la benzina per i caccia e i bombardieri, che nei piani del Comando Supremo avrebbero dovuto usare l'aeroporto quale trampolino di lancio per controllare l'intero Mediterraneo. A fine aprile, tuttavia, negli hangar immalinconivano soltanto quattro Macchi 202. Artiglieri e mitraglieri italiani compirono prodigi: decine e decine di apparecchi furono abbattuti, di converso soltanto sedici pezzi vennero colpiti. Tra la guarnigione alla fine si conteranno 36 morti e 116 feriti.

Proprio la sera dell'8 la cisterna Arno, salpata da Porto Empedocle, rifornì la guarnigione con trecento tonnellate d'acqua. Ventiquattr'ore dopo un capiente peschereccio condotto da marinai panteschi navigò al buio fino a un approdo conosciuto soltanto da loro: furono sbarcate 20 tonnellate di farina, 14 di fagioli, 17 di riso, 10 di pasta, 30 di benzina, munizioni, spolette, proiettili anticarro, 440 chili di tabacco. Secondo il Comando Supremo, Pantelleria poteva ben resistere e pure Supermarina si dichiarava d'accordo. I bombardamenti erano stati impressionanti, ma avevano centrato massi, campi incolti e qualche capra. La capacità di resistenza della truppa era intatta. Al mattino salpò da Sfax il naviglio con destinazione Pantelleria già sottoposta a terapia d'urto: 1040 apparecchi stavano sganciando 1400 tonnellate di ordigni. La sera alle 19 Pavesi telegrafò al ministero disegnando un quadro difforme dal vero: la difesa non è in grado di fronteggiare eventuali azioni di sbarco.

Mancano viveri, acqua e adeguati rifugi. Morale armati fiaccato da assoluta impotenza combattere e difendersi. Sento triste dovere dichiarare che tutte le possibilità materiali di resistenza sono esaurite. Il messaggio venne decifrato soltanto alle cinque dell'11. Per non svegliarlo la comunicazione fu data a Mussolini alle otto. Il duce credette che la richiesta di resa fosse addebitabile alla penuria di acqua, nessuno l'aveva informato delle trecento tonnellate consegnate dall'Arno: fece dunque dire a Pavesi di avvisare pure Malta che Pantelleria si arrendeva a causa dell'acqua. Alle 8.30 tutti i mezzi da sbarco alleati erano dinanzi a Pantelleria. Sostavano immobili, non sparavano. Davano l'impressione di attendere. Forse la bandiera bianca issata sul semaforo intorno alle 9.30. Pavesi si arrese senza consultarsi con Supermarina e senza far distruggere i cannoni, le mitragliatrici, l'hangar, l'aeroporto, le installazioni. Regalò al nemico una base di considerevole valore strategico quasi integra e questi in tre giorni la riconvertì alle proprie necessità. Fu Ambrosio a chiarire al feldmaresciallo che la squadra non si sarebbe mossa, e stavolta non difettava neppure la nafta. Le disponibilità ammontavano a 58.000 tonnellate, sufficienti per un mese di navigazione. A difettare era la voglia: come accadeva dall'11 giugno '40, i vertici della marina si rifiutavano di andare in battaglia. Eccesso di prudenza, eccesso di lungimiranza, o, molto più banalmente, rispetto d'intese con il nemico tanto ferree quanto inconfessabili? Il libro di Zacharias, il numero due del Naval Intelligence, è ricco di particolari da brividi. In vista dell'invasione i servizi segreti inglesi e statunitensi chiesero a Cunningham: Volete che la flotta italiana esca in battaglia o rimanga nei porti? Potete scegliere. E l'ammiraglio inglese scelse di non correre rischi, pur dicendosi sicuro di poter disintegrare il naviglio italiano. Allora, racconta Zacharias: intavolammo trattative con alcuni elementi dissidenti delle più alte sfere della marina italiana con cui eravamo direttamente in contatto. Incrociatori e corazzate rimasero così nei porti. In cambio l'aviazione alleata che tra il 1° giugno e il 9 luglio rase al suolo città e postazioni militari non sganciò neppure per sbaglio una bomba contro i porti di La Spezia, di Genova, di Taranto, dove le navi dondolavano in bella evidenza.

Eppure la preparazione dello sbarco in Sicilia, con cui sarebbe stato aperto il secondo fronte europeo avrebbe dovuto suggerire di dedicare ogni attenzione e ogni sforzo alla neutralizzazione della flotta nemica. Il 9 luglio intorno alle 20 il capitano di fregata Gasparrini, capo di stato maggiore della piazza militare marittima di Augusta e Siracusa, telefonò al comando della difesa contraerea territoriale. Gli rispose il numero due, il seniore Calogero Sapio: a lui Gasparrini ordinò di comunicare ai reparti dipendenti di 'predisporre la disposizione per la distruzione delle batterie. Sapio ne fu allibito, e non certo per l'uso contorto della lingua italiana. La telefonata di Gasparrini fu seguita da un fonogramma firmato dal contrammiraglio: si riconfermava il precedente ordine e si ricordavano le responsabilità dei comandanti dipendenti circa l'esatto adempimento. Il piano di distruzione, per altro, non aveva mai ricevuto l'approvazione del Comando Supremo, quindi giaceva in un cassetto dal quale fu prelevato e ricopiato con la carta carbone. Scrive la corte di appello di Milano nella famosa sentenza che mandò assolto Trizzino dall'accusa di aver diffamato Leonardi, Pavesi e Brivonesi: Quando quell'ordine fu trasmesso e ripetuto, tra le 20 e le 21, non era ancora avvenuto lo sbarco dei reparti nemici aviotrasportati, ma l'avvistamento di numerosi mezzi navali fra la Sicilia e Malta lasciava prevedere imminente un attacco all'isola. La piazza era dunque in allarme, sebbene non ancora direttamente minacciata. Più che del piano di distruzione, il quale era stato predisposto qualche mese prima e non aveva bisogno di essere rinverdito proprio in quel momento, è ammissibile il giudizio che l'ammiraglio avrebbe dovuto preoccuparsi della resistenza diramando un ordine del giorno, richiamando i reparti al senso del dovere, predisponendo insomma gli animi all'estrema difesa, com'è sempre avvenuto in simili circostanze presso gli eserciti di ogni paese. L'invasione era in atto e quando raggiunse il culmine le batterie furono raggiunte dalle disposizioni per la distruzione. Avvenne il finimondo. Chi si toglieva la divisa e scappava verso casa, chi buttava il fucile che erano stati appena distribuiti, fino a giugno la dotazione aveva riguardato soltanto il servizio di guardia, chi cercava di salire su un qualsiasi mezzo motorizzato diretto verso Catania. Esplodevano gli imponenti cannoni di Augusta, venivano ridotti al silenzio dai commando del SAS i pezzi posizionati nella penisola della Maddalena. Anche chi aveva responsabilità di comando si preoccupò di mettersi in salvo. Alle 10, dopo una puntata dei quadrimotori britannici, il capitano di fregata Turchi, fresco comandante della base, annunciò che era stato autorizzato da Leonardi a squagliarsela assieme al personale e ai reparti antisbarchi del maggiore Arena. Nel porto furono abbandonati pontoni, motovedette e cinque rimorchiatori. Nel pomeriggio il tenente di artiglieria Domenico Marturano e il sergente Giuseppe Manzella accesero le micce sotto i fusti. Così la marina rinunciava volontariamente ai cannoni più possenti del Mediterraneo. Li seguì il treno blindato arroccato fra gli alti costoni della stazione di Targia. Il comandante aveva comunicato a Gasparrini che il treno non poteva muoversi e il capo di stato maggiore, senza chiederne la causa, aveva subito trasmesso l'ennesimo ordine di distruzione. Nelle polemiche e nelle liti giudiziarie del dopoguerra fu detto che mancava l'acqua nella caldaia della locomotiva. I ferrovieri della stazione hanno sempre sostenuto il contrario. Alle 17.30 venne reso inutilizzabile il centro radio della Colombaia sulle colline poco a sud di Melilli. Gasparrini si giustificò con la presenza di militari nemici nei dintorni. Non era vero: gli scozzesi, i più vicini, si trovavano a 20 chilometri. Alle 18 furono bruciati i depositi di carburante di Punta Cugno: le lingue di fiamma causarono l'esplosione delle contigue riservette di munizioni. Alle 20 la base idrovolanti domandò a una batteria della DICAT di bombardare i velivoli alla fonda.

Il capomanipolo Morana si fece ripetere tre volte l'ordine giacché non riusciva a capacitarsene: per non farli cadere nelle mani del nemico sarebbe bastato alzarsi in volo. Fu uno sconsolato De Pasquale a dare il via libera. In simile marasma si erano perse le tracce di Leonardi. Sin dal mattino il suo comando a Grotte di Melilli non aveva risposto alle telefonate. Le staffette inviate da De Pasquale avevano trovato gli uffici deserti e incendiati. Dal primo pomeriggio il comandante della piazza diviene introvabile. Lo rintracciamo grazie alla testimonianza del generale Emilio Faldella al tribunale di Milano: Si trasferì la sera del 10 dal caposaldo Sud al caposaldo Nord di Melilli; la mattina dell'11 al ponte minato nei pressi di Villasmundo, la sera del 12 a Quaranta Migliara, il 13 a Masseria Arcile e il 14 nella zona di Cozzo Telegrafo...Tra il 10 e l'11 furono fatti numerosi tentativi a mezzo staffette e del telefono per mettersi in comunicazione col comando Piazza sia per riceverne ordini che per trasmettergli un messaggio urgente dell'armata.

I collegamenti c'erano e i telefoni funzionavano, taceva solo quello del comando La sera dell'11 si cercava ancora a Melilli Grotte il comandante della piazza e questi si era trasferito da ventiquattr'ore a Melilli paese senza che nessuno lo sapesse.

Ne era a conoscenza soltanto il colonnello Schmalz. Aveva immediatamente avvisato Hitler con un telegramma cifrato: colonne di fuggiaschi incontrate sulla strada per Catania; distrutte le batterie della Piazza Militare Marittima di Augusta e Siracusa; Augusta sgombrata e da me rioccupata... Il mattino dell'11 Schmalz, attendato nei pressi di Melilli, fu abbordato da Leonardo. Chissà come sarà stato l'incontro fra l'asciutto e accigliato colonnello germanico, erede della tradizione prussiana di fedeltà ai doveri e alla bandiera, e il rappresentante di una lobby che da tre anni faceva di tutto per non combattere la guerra.

E tali erano ormai il caos e lo scoramento che la batteria nella penisola di Magnisi avvisò De Pasquale di aver avvistato mezzi pesanti dirigersi su Priolo: erano quelli germanici, ma furono catalogati come inglesi e anche i cannoni di Magnisi vennero inoffensivi. Venne colpito il cacciatorpediniere Eskimo, Troubridge fu costretto a trasbordare sull'Exmoor, che nella mattinata del 12 attraccò nella rada di Augusta assieme al caccia greco Kanaris. In direzione delle due navi furono sparati dal monte Tauro un paio di granate a casaccio.

Leonardi sostenne di esser stato lui a fare fuoco dopo aver recuperato gli otturatori dei cannoni. Nel suo Sicilia senza Italia Sandro Attanasio afferma, invece, che i pezzi fossero manovrati da alcuni giovanissimi ufficiali della 674a batteria e cita i nomi dei capimanipolo Caforio e Ghidetti. Cunningham non poteva immaginare che gliela avrebbero regalata intatta. E a questo proposito vale rifarsi per l'ultima volta alla sentenza della corte di appello di Milano:...è estremamente grave che nella giornata del 10 sia stata distrutta ogni cosa, batterie antinave, postazioni della difesa contraerea, stazione radio, treno armato, depositi di munizioni e carburante e siano rimaste intatte soltanto le attrezzature portuali: quelle attrezzature che poi furono di valido aiuto alle forze nemiche nello sviluppo delle operazioni di sbarco per la conquista totale dell'isolaA Mussolini la notizia della caduta di Augusta fu comunicata poco prima che gli fosse consegnato un rapporto spedito da Hitler attraverso il generale von Rintelen. Era la copia del fonogramma dell'11 sera di Schmalz a Kesselring: Sino ad oggi nessun attacco nemico ha avuto luogo contro Augusta. Gli inglesi non ci sono mai stati. Ciò nonostante il presidio italiano ha fatto saltare in aria cannoni e munizioni e incendiato un grande deposito di carburante. L'artiglieria contraerea di Augusta e Priolo ha gettato in mare le munizioni, poi ha fatto saltare in aria i cannoni. Già il giorno 11 nel pomeriggio nessun ufficiale o soldato italiano si trovava nella zona della brigata Schmalz. Molti ufficiali avevano già, nel corso della mattinata, abbandonato le loro truppe e con autoveicoli si erano recati a Catania e oltre. Molti soldati isolati o piccoli gruppi si aggirano per la campagna, taluni hanno gettato le uniformi e indossato abiti civili. Nelle stesse ore in cui Ambrosio difendeva il comportamento di ammiragli, generali, ufficiali, graduati, soldati, Leonardi si consegnava agli inglesi. Il generale Guzzoni ne propose un fulmineo processo per inettitudine, ma nell'Italia che andava a rotoli il procedimento non partì mai. Nel '44 fu la Repubblica sociale di Salò a condannare il contrammiraglio a morte in contumacia per tradimento.

La neo Repubblica italiana, riaccolto nel proprio seno il prode combattente, gli conferì la promozione e la medaglia d'argento per il valore e il coraggio dimostrati nel difendere Augusta e Siracusa. Ai primi di agosto gli inglesi attraverso l'agente del servizio informazioni della marina in Svizzera hanno fatto pervenire una domanda secca: fino a quando gli italiani rimarranno al fianco del Terzo Reich? Maugeri è andato difilato dal ministro degli Esteri, Guariglia. La cui risposta è così riportata dall'ammiraglio: L'Italia è ansiosa di abbandonare i tedeschi al più presto possibile. Essa non può farlo a meno che, e sin quando, gli Alleati non vengano in aiuto con un appoggio davvero sostanzioso. Infine, se gli Alleati invaderanno il nostro territorio continentale, la nostra resistenza sarebbe puramente simbolica. Negli stessi giorni da Lisbona Cippico avverte Supermarina del desiderio degli Alleati che la flotta italiana rimanga integra. Nella capitale portoghese si precipita un fidato emissario di Maugeri, il capitano Mario Vespa, il quale consegna all'addetto navale statunitense la totale adesione dei nostri ammiragli. Ed è un si pesante, quello di Vespa: Maugeri ha coinvolto anche Sansonetti e De Courten, il nuovo Ministro della Marina, che assomma pure la carica di capo di stato maggiore.

In quella prima settimana di agosto i giochi sono talmente scoperti da indurre il presidente del Portogallo Salazar a telegrafare al suo ambasciatore a Londra incaricandolo di prospettare che la flotta italiana venga internata nei porti lusitani. La vicenda è stata svelata da Antonio Trizzino in un altro suo straordinario libro, Settembre Nero, dove l'autore così conclude: Tutto ciò accade non soltanto prima della richiesta italiana di resa, ma anche prima della partenza dall'Italia del plenipotenziario del generale Castellano, che avviene il 12 agosto. Dalla capitale Lanza di Trabia aveva fatto rientro nell'isola. Zanussi e Lanza di Trabia appartenevano alla fazione dell'esercito avversa ad Ambrosio e ai suoi piani, dunque anche a Castellano. Era, curiosamente, la fazione legata a Roatta: il capo di stato maggiore dell'esercito, promotore del viaggio di Zanussi nel timore di esser tagliato fuori dalle nuove intese e a Carboni. Intorno si agitavano i fantasmi del vecchio e del nuovo SIM, cioè di quello considerato vicino al nazifascismo e di quello considerato vicino agli Alleati. Era il valzer degli opportunisti e dei voltagabbana. In estate avevano liquidato Amè: il suo aver preso sul serio la guerra e cercato di vincerla l'aveva fatto bollare come fìlotedesco. Il primo di tali patti fu la consegna della flotta, per di più con l'obbligo di attraversare il Mediterraneo per andarsi ad ancorare sotto i cannoni della fortezza di Malta (telegramma di Cunningham a Churchill). E dire che nelle dichiarazioni d'intenti di quella prima settimana di settembre veniva ancora asserito che le navi avrebbero lasciato la base di La Spezia per l'ultima missione: contrastare fino all'ultimo uomo lo sbarco anglo-americano a Salerno. Così disse De Courten a Bergamini, il comandante della squadra, incontrandolo a Roma il 7 settembre. Il ras della marina (mai nessuno aveva accumulato un simile potere nelle proprie mani), nascose la verità all'uomo che avrebbe dovuto guidare la flotta al sacrificio estremo. L'ennesima, ributtante bugia. Gli iniziati alle segrete cose sapevano che corazzate, incrociatori, cacciatorpediniere sarebbero salpati soltanto per consegnarsi all'ex nemico.

Un trasferimento assurdo e contro ogni regola, che costò la vita di 1253 uomini della Roma, l'ammiraglia, inabissatasi il 9 settembre nei pressi della Maddalena a causa di due bombe radiocomandate da 1400 chili sganciate da un Dornier 217K tedesco. E Bergamini, che era soltanto un militare ligio al dovere e al giuramento, perì assieme ai suoi marinai. Una strage che pesa sul capo degli ammiragli doppiogiochisti, ma della quale non furono mai chiamati a rispondere, come non risposero dell'onta inferta alla marina italiana: la consegna della flotta in un porto nemico. Un'onta che neppure i francesi avevano subito nel 1940: l'armistizio stipulato con la Germania contemplava infatti che le navi rimanessero nei porti di appartenenza, inaccessibili sia ai tedeschi sia agli inglesi.

D'altronde Maugeri nelle sue memorie racconta l'emozione che provò nel veder sventolare dopo tre anni il tricolore accanto all'Union Jack. Il 6 giugno 1944 nella Roma appena liberata Marsloe e Murray, i due agenti del Naval Intelligence che da quasi un anno operano sul territorio italiano, raggiungono l'appartamento dell'ammiraglio Maugeri. L'incontro è caloroso, Marsloe e Murray si complimentano per l'ottimo lavoro svolto da Maugeri alla testa del SIS clandestino. Nei nove mesi dell'occupazione nazista l'ammiraglio ha infatti operato con la sua struttura al servizio degli Alleati. Lo racconta egli stesso con dovizia di particolari, ma senza chiarire in che modo era avvenuto il contatto, come lui fosse già noto agli anglo-americani, da chi fosse partita l'iniziativa.

Il comportamento delle truppe. Fra le varie accuse mosse nel dopoguerra dalla Jugoslavia all'Italia (accuse in gran parte strumentalizzate per presentare i successivi massacri e infoibamenti degli italiani come un fenomeno di giustizia popolare) c'è anche quella di avere compiuto violenze e atrocità durante l'occupazione. La pubblicistica slava non esitò in quegli anni a considerare i soldati italiani alla stessa stregua dei tedeschi e degli ustascia. In realtà, il comportamento delle nostre truppe fu molto diverso. Naturalmente, quando la situazione si fece particolarmente accesa, ci furono dei gravi eccessi, ma all'inizio gli stessi fascisti manifestarono orrore per i delitti commessi dai tedeschi e dagli ustascia. Spoliazioni, rapine, uccisioni sono all'ordine del giorno annotava scandalizzato Galeazze Ciano nel suo diario. Mentre il federale di Trieste, Emilie Grazioli, Commissario per la Slovenia, lamentava il comportamento inumano dei nazisti e i loro cupi soprusi. Da parte loro, i tedeschi accusavano gli alleati italiani di evidenti e continue prove di simpatia nei confronti dei serbi e degli ebrei che venivano protetti dalle persecuzioni degli ustascia e aiutati a trasferirsi coi loro beni nella zona italiana.

Anche quando la guerriglia si fece più accesa e si accentuarono gli attacchi contro i nostri soldati (peraltro suddivisi e sparpagliati in una miriade di piccoli presidi spesso indifendibili) molti ufficiali esitarono ad attuare le draconiane misure di rappresaglia che gli Alti comandi avevano adottato a imitazione dei tedeschi. I soldati, d'altra parte, recalcitravano davanti all'idea di trasformarsi in poliziotti. Molti si rifiutavano di eseguire gli ordini; e le pene severe comminate ai sabotatori non venivano nella maggior parte applicate.

Durante il conflitto. Per un attimo sembrò che non lo fosse più neppure nell'Italia settentrionale. Alle 10 del 5 marzo avvenne uno sciopero bianco alla FIAT Mirafiori di Torino: per la prima volta dopo sedici anni si era verificato uno sciopero che in pochi giorni si estese al Piemonte, alla Lombardia ed un poco all'Emilia. il sistema si decise d'un tratto per la maniera morbida ed il 31 marzo promise, in occasione del Natale di Roma (21 aprile), un'indennità di dieci lire al giorno ad operai ed impiegati: gli scioperanti tornarono a lavorare. II regime fascista, ormai con l'acqua alla gola, fu perciò relativamente morbido con gli operai. Si tenga infatti presente che il 7 maggio 1943 fu approvata a Washington una legge che prevedeva l'occupazione militare delle industrie in caso di sciopero e già il 24 giugno essa fu messa in pratica con l'occupazione delle officine FORD a Detroit. In confronto a Roosevelt, Mussolini si rivelò dunque, in quell'occasione, piùdemocratico.

Il colonnello Primaverile comandava a Scicli il 123° reggimento. A sera inoltrata ricevette una telefonata: uno sconosciuto, chiamandolo colonnello Primaverillo, gli intimò di arrendersi visto che il reggimento era accerchiato. Superato lo stupore: gli inglesi e soprattutto gli americani conoscevano nome, cognome e grado di tutti gli ufficiali italiani da maggiore in su, il colonnello organizzò la resistenza. I suoi fanti contrattaccarono, circa trenta paracadutisti furono catturati. Vennero consegnati ai carabinieri e da questi liberati al mattino, allorché fu chiaro che l'invasione procedeva inarrestabile.