sabato 12 aprile 2008

ITALIANI BRAVA GENTE

ITALIANI BRAVA GENTE?

(storia di un mito attraverso i massacri tricolori)

Come si sa, i sogni muoiono all’alba. I falsi miti, invece, che a differenza dei sogni possono servire a qualcosa, sono più duri a morire. E infatti, fra le maledizioni che ci accompagnano e che puntualmente si ripresentano quando ci si vuole impedire di ragionare, c’è il vecchio, stantio, insopportabile mito del fante italiano buono e generoso che, a differenza dell’odioso e crudele nemico, sarebbe sempre un modello di umanità, ricco di buoni sentimenti e ottime intenzioni. Insomma, l’avrete capito, la solita solfa dell’italiano brava gente.

Purtroppo, invece, la storia del nostro esercito (come del resto la storia di tutti gli eserciti) è piena di episodi che definire infami e vergognosi è un eufemismo. Dall’Unità di Italia in poi, se si esclude il macello della prima guerra mondiale, l’unica combattuta sul suolo italico nelle terre irredente, i nostri soldati hanno continuamente varcato i patrii confini per aggredire popoli e nazioni che non ci avevano neppure dichiarato guerra. E il fatto che dopo l’aggressione l’esercito dovesse quasi sempre rientrare precipitosamente (quando ce la faceva) con le pive nel sacco, lasciando marcire moltitudini di caduti sui campi di battaglia, non toglie nulla alla brutalità dei suoi interventi, anche perché, quasi ovunque, sia pure con maggiore o minore frequenza e intensità, si è reso responsabile di crimini di guerra rivolti contro le popolazioni civili. E questo in tutte le fasi dello stato unitario, l’altro ieri con la monarchia liberale, ieri sotto il fascismo, oggi imperante la democrazia repubblicana.

Ed è evidentemente per questo che, con esemplare coerenza, in tutte le epoche e occasioni, il potere, chiamati a raccolta i suoi corifei, ha dato fiato alle trombe della retorica per coprirsi le vergogne, usando come efficace foglia di fico il mito del bravo italiano, sicuro che con il solleticare l’orgoglio nazionale e la presunzione di essere migliori degli altri, si poteva mettere la sordina all’indignazione o a fastidiosi sensi di colpa. Ma se si usasse di più l’arte della memoria, ci renderemmo conto che l’infamia del militarismo e dei suoi frutti ha colpito duro anche fra i bravi italiani.

A pochi anni dal raggiungimento dell’Unità, perseguita in nome dell’indipendenza dallo straniero e dell’autodeterminazione dei popoli, l’Italia cerca di far assaggiare ad altri la politica di potenza subita precedentemente, dando il via a un’impressionante serie di aggressioni militari.

Anche se i risultati sono le disfatte che sappiamo, nulla toglie alla gravità delle intenzioni con le quali ci si mosse. Si comincia con la prima guerra d’Africa, che, fra il 1885 e il 1896, vede l’esercito impegnato nella conquista di Eritrea e Abissinia.

Una dura campagna costellata dalle inevitabili rappresaglie contro i civili, e interrotta solo dalla disastrosa sconfitta di Adua. Passati quindici anni, le voglie africane dei governanti, solleticate dal disfacimento dell’impero ottomano, riportano l’esercito sulle coste libiche, alla conquista di Tripoli bel suol d’amore. Nonostante l’opposizione popolare (ben sintetizzata da Augusto Masetti), le cose vanno un pò meglio e la Libia diviene la prima colonia.

Naturalmente le truppe devono affrontare la guerriglia della resistenza (Banditi? Terroristi?) la cui repressione porta alla morte e alla prigionia di decine e decine di migliaia di persone. Solo recentemente si è cominciato a parlare delle disumane condizioni in cui vennero lasciati morire come mosche i capi della resistenza nel confino di Lipari.

Terminata la prima guerra mondiale, non sazi del macello appena conclusosi, si invade l’Albania facendone un protettorato.

Non è che il prodromo della politica di aggressione del fascismo, che fra i suoi primi atti porta le truppe in Libia, per la conquista dei territori ribelli. La bonomia che ci contraddistinse è testimoniata dall’amore che tuttora i libici portano al civilizzatore romano.

E dal fatto che rimane un tabù, nella nostra democrazia, documentare le porcherie a cui si ricorse per piegare la resistenza di quel popolo.

Fatti fuori i libici, si cerca di vendicare l’onta di Adua invadendo l’Etiopia. Già in altra occasione abbiamo avuto modo di parlarne, per cui non serve ricordare l’uso indiscriminato dei gas tossici contro i civili (oggi si chiamano armi di distruzione di massa), il massacro di migliaia di cittadini dopo il fallito attentato a Graziani, la vergogna dello sterminio sistematico dei religiosi copti, rei di infiammare la resistenza. L’anno dopo, nel 1937, altre truppe accorrono in Spagna in aiuto dei macellai di Francisco Franco. Ci comportiamo talmente bene, che gli stessi fascisti spagnoli devono porre freno alle esuberanze degli uomini guidati da Arconvaldo Bonaccorsi.

Passano due anni e si invade l’Albania, e ancora una volta si piega la resistenza degli aggrediti con la distruzione di interi paesi.

Poi si pugnala alle spalle, come disse l’opinione pubblica mondiale, la Francia, già piegata dall’invasione nazista. A breve seguono l’aggressione alla Grecia, l’invasione della Jugoslavia, la campagna di Russia, la terza guerra d’Africa che si concluderà nel disastro di El Alamein. Una lunga serie di guerre di conquista, dunque, segnate, in particolare nei Balcani, dall’attacco contro le popolazioni civili. La vicenda delle foibe carniche, di cui si è tornati a parlare, non rappresenta che il contraltare barbaro della barbara presenza delle nostre truppe in Croazia e Slovenia. Ma già, questa è acqua passata.

Oggi, in regime democratico e scomparso il mostro comunista, il nostro compito sulla scena internazionale diventa quello di esportare libertà e democrazia ovunque si renda necessario. O meglio, ovunque risiedano gli interessi dell’amico americano.

Da italiani brava gente ci trasformiamo in peacekeepers, le aggressioni alla Serbia, alla Somalia, all’Iraq, all’Afganistan, cambiano nome e diventano operazioni umanitarie, guerre preventive, libertà durature. Il bombardamento delle città, le operazioni di polizia, i rastrellamenti, con un colpo di bacchetta magica, si trasformano nella rassicurante presenza dei nostri bravi soldati e carabinieri impegnati a impedire agli adulti di farsi male da soli e a distribuire caramelle e palloncini ai bambini.

E ancora una volta ci si rovescia addosso all’apparato propagandistico del sistema: l’intervista alla fidanzata del caporale, le dichiarazioni orgogliose del generale, l’encomio solenne del Martino di turno, la barbara crudeltà del nemico, l’affetto che ci portano le popolazioni invase, l’ammirazione degli altri contingenti, la stima del presidente americano per il nostro buon lavoro.

Insomma, la solita roba necessaria a nascondere sotto la maschera del buonismo democratico l’aggressione a mano armata contro paesi che non si sono mai sognati di dichiararci guerra. Ma questo gioco mistificatorio a volte, e capiterà sempre più spesso, si rompe di fronte alla tragicità della situazione reale.

Come in quei giorni a Nassirya, dove, per fronteggiare l’inevitabile rivolta degli iracheni contro le truppe di occupazione italiane, non si è esitato a far fuoco indiscriminatamente, uccidendo anche pericolosissime donne e bambine.

Questo macello (di cui, guarda caso, in epoca di totale sovraesposizione mediatica, non ci è giunta neppure un’immagine), non vuol dire comunque che siamo peggio di altri, ma solo che per qualsiasi esercito di occupazione, fatto o meno di brava gente, (e qui sta la disumanità di questa come di tutte le guerre) la rappresaglia e l’aggressione contro i civili sono strumenti indispensabili per mantenere sottomessi gli aggrediti.

Del resto, se non fosse questa la volontà vera per la quale siamo andati ad uccidere e farci uccidere in Iraq, come non dare ragione a quello sceicco di Nassirya che, con finta ingenuità, ha recentemente affermato: Gli italiani si presentano come forza di pace? Ma allora perché non ritirano l’esercito e non mandano organizzazioni umanitarie civili? Le accoglieremmo a braccia aperte.

Forse la risposta è che noi italiani siamo talmente brava gente che siamo anche disposti a uccidere e farci uccidere... per il bene altrui.

I DEPORTATI DALLA LIBIA IN ITALIA

«La guerra del 1911 crimine della nostra storia.».


La reazione violenta e rabbiosa delle autorità civili e militari italiane fu causata, innanzitutto, dalla spiacevole sorpresa di vedere che i libici solidarizzavano, al momento dello sbarco, nell'ottobre del 1911, con le truppe turche di guarnigione ed anzi costituivano i reparti più aggressivi. Giolitti, male informato, era persuaso che gli abitanti della Tripolitania e della Cirenaica attendessero l'arrivo degli italiani con autentica gioia. Deluso ed irritato, inviava al generale Caneva quei nefasti telegrammi con i quali ordinava stragi e deportazioni. Non soltanto gli italiani avevano sottostimato il patriottismo arabo, ma erano convinti che un «popolo di beduini» non sia stato in grado di opporre una valida resistenza. Dovevano amaramente ricredersi. Già il 23 ottobre subivano, a Sciara Sciat, una pesante sconfitta con un bilancio di 21 ufficiali e 482 soldati uccisi. Ma non era che l'inizio. Nel 1915, durante la «grande rivolta araba», gli italiani avrebbero perso tutti i territori conquistati ed avrebbero conservato soltanto alcuni porti, dopo una frettolosa e disperata ritirata che era costata diecimila morti. Ci vollero vent'anni per riconquistare integralmente la Libia e l'uso di tutti i mezzi, compresi quelli proibiti. In effetti, la civilissima Italia giungeva ad impiegare l'iprite e il fosgene sulle popolazioni civili, nonostante che il governo di Mussolini avesse firmato la convenzione di Ginevra che proibiva l'impiego dei gas. Quanti furono i deportati libici nel paese, gli esiliati fuori dalla Libia nelle isole italiane che allora erano tra i luoghi più impervi e malsani, e quante le vittime di questa repressione di massa?

I deportati libici in Italia superarono i 4 mila nel solo ottobre del 1911. In seguito, dopo ogni rovescio, le colonie penali italiane vedevano giungere altri confinati, dei quali però non è stato possibile tenere precisa contabilità. Siamo, invece, molto più informati sui libici che furono internati nei campi di concentramento del Sud-Bengasino e della Sirtica. Come è noto, l'idea di rinchiudere in tredici lager gran parte della popolazione della Cirenaica venne al generale Badoglio quando si accorse che la controguerriglia tradizionale non dava alcun frutto ed era assolutamente necessario isolare Omar el-Mukthar e i suoi mugiahidin. Scriveva infatti Badoglio e Graziani: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione». Badoglio era perfettamente consapevole del pericolo che incombeva sui libici, ma non modificò i suoi piani. Il risultato fu che dei 100 mila libici internati nei lager, 40 mila morirono per le epidemie, le spaventose condizioni igieniche dei campi, la scarsa e cattiva alimentazione, le frequenti decimazioni. Quanto la mancanza di una memoria storica accettata - tuttora i libri di testo italiani non menzionano queste atrocità ed è ancora impossibile vedere il film sull'eroe libico Omar el-Mukhtar giustiziato dalle truppe d'occupazione fasciste guidate da Graziani - ha alimentato al contrario il mito di un’occupazione italiana bonaria, alla «brava gente?» Ovviamente su tutto ciò che accadeva di violento e negativo in Libia l'opinione pubblica italiana non veniva informata. La censura era rigidissima sia nel periodo della liberaldemocrazia che durante il ventennio fascista. Ma ciò che sorprende e indigna è che il silenzio sulle deportazioni e le stragi, consumate in Libia come in Etiopia, è stato mantenuto in Italia anche nel secondo dopoguerra, a libertà e democrazia ristabilite. Ancora oggi i testi scolastici, salvo poche eccezioni, ignorano quei gravissimi fatti o li minimizzano. E si dà il caso che un film sulla resistenza libica, «leone nel deserto», sia stato in pratica proibito e visionato soltanto nei cineclub. Ciò che prevale ancora oggi in Italia, nonostante le precise ed assordanti rivelazioni sui misfatti del colonialismo italiano, è una visione mitica e bonaria delle nostre imprese coloniali. In che modo questa responsabilità storica ha costituito e costituisce un elemento irrisolto di quello che il governo libico chiama «mancato risarcimento delle vittime?».

Cosa chiede ancora la Libia che non riusciamo ad esaudire ma che promettiamo soltanto? I risarcimenti dei danni di guerra, richiesti dalla Libia e dall'Etiopia, sono stati rimborsati con estrema taccagneria, al punto da aprire, specie con la Libia di Gheddafi, un eterno contenzioso.

Si è allora cercato, con altrettanta grettezza, di saldare il debito materiale e morale con la promessa di costruire un ospedale o una strada litoranea. Ma ciò che si attendono veramente i libici, a saldo dei loro 100 mila morti, non sono tanto dei beni materiali quanto il riconoscimento del loro sacrificio, della loro dignità troppo a lungo calpestata, del loro patriottismo sovente negato. Salvo alcune nobili parole dell'allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema, il 1º dicembre 1999, dinanzi al monumento ai martiri di Sciara Sciat, i vertici dello Stato italiano continuano ad ignorare i fatti e i loro debiti morali.

La disperazione dei deportati libici rimanda alla nuovissima tragedia dell'immigrazione che fugge dalla grande miseria dell'Africa. Non ti sembra che permanga una forma malcelata di colonialismo nella pressante richiesta da parte italiana e europea - il muro di Shengen - alla Libia perché si trasformi in gendarme degli immigrati? I Centri istituiti in Libia negli ultimi anni, nell'ambito della lotta all'immigrazione clandestina, con il consenso e il finanziamento delle autorità italiane, non si possono configurare certo come autentici campi di concentramento, ma essi rientrano tuttavia in quel novero di strumenti odiosi che credevamo estinti. Pertanto rivolgiamo un invito alle autorità italiane e libiche a ricercare strumenti più umani per risolvere i problemi della convivenza. Aggiungere sofferenze a sofferenze non fa che acuire il contrasto fra il sud e il nord del pianeta, con tutte le conseguenze che sappiamo.

Quanto la mancanza di una memoria storica accettata tuttora, i libri di testo italiani non menzionano queste atrocità ed è ancora impossibile vedere il film sull'eroe libico Omar el-Mukhtar giustiziato dalle truppe d'occupazione fasciste guidate da Graziani: ha alimentato al contrario il mito di un’occupazione italiana bonaria, alla «brava gente?» Ovviamente su tutto ciò che accadeva di violento e negativo in Libia l'opinione pubblica italiana non veniva informata. La censura era rigidissima sia nel periodo della liberaldemocrazia che durante il ventennio fascista. Ma ciò che sorprende e indigna è che il silenzio sulle deportazioni e le stragi, consumate in Libia come in Etiopia, è stato mantenuto in Italia anche nel secondo dopoguerra, a libertà e democrazia ristabilite. Ancora oggi i testi scolastici, salvo poche eccezioni, ignorano quei gravissimi fatti o li minimizzano. Ma ciò che si attendono veramente i libici, a saldo dei loro 100 mila morti, non sono tanto dei beni materiali quanto il riconoscimento del loro sacrificio, della loro dignità troppo a lungo calpestata, del loro patriottismo sovente negato. Salvo alcune nobili parole dell'allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema, che l’1 dicembre 1999, dinanzi al monumento ai martiri di Sciara Sciat, i vertici dello Stato italiano continuano ad ignorare i fatti e i loro debiti morali.

Mi sembra estremamente lodevole che sia stato il sindaco delle Isole Tremiti a convocare questa giornata di studi sui deportati. E' proprio nelle Tremiti e ad Ustica che sbarcano, tra il 29 ottobre e il 3 novembre 1911, i primi 2.975 deportati. Sono stati raccolti a caso per le strade di Tripoli e poi ammucchiati nelle stive delle navi, senza alcuna prova di colpevolezza. Fra gli esiliati ci sono bimbi in tenera età, donne e persino un vecchio di 90 anni. Molti non sopravviveranno ai rigori della prigionia, alla cattiva alimentazione, all'angoscia per la separazione dai famigliari.

Centri istituiti in Libia negli ultimi anni, nell'ambito della lotta all'immigrazione clandestina, con il consenso e il finanziamento delle autorità italiane, non si possono configurare certo come autentici campi di concentramento, ma essi rientrano tuttavia in quel novero di strumenti odiosi che credevamo estinti. Pertanto rivolgiamo un invito alle autorità italiane e libiche a ricercare strumenti più umani per risolvere i problemi della convivenza. Aggiungere sofferenze a sofferenze non fa che acuire il contrasto fra il sud e il nord del pianeta, con tutte le conseguenze che sappiamo.

«ALLE TREMITI SIAMO IN 400, COME TUTTI GLI ESILIATI MORTI»

Nell'isola è stato edificato nel 2006, sopra la grande fossa comune, il primo mausoleo italiano per i deportati libici. Il Centro studi storici di Tripoli, e ancora piccole isole che hanno visto la deportazione coloniale come i comuni di Favignana, Ponza, Ustica. Ed è sicuramente un dato di valore storico, che una memoria troppo volte non accettata.

Quella del colonialismo italiano, sia invece ricordata dalle piccole isole che, stavolta sono state capaci di coinvolgere con la loro iniziativa anche il governo italiano.«Il senso di questa iniziativa - ci spiega Giuseppe Calabrese, sindaco delle Tremiti - è innanzitutto questo: noi isolani abbiamo voluto restituire dignità a persone che non ci sono più, di qualunque nazionalità siano, perché la dignità non ha colorazioni particolari, e che finora invece erano stati quasi cancellati, messi alla rinfusa in anonime fosse comuni. Perché secondo me la storia delle persone va rivalutata, a qualunque realtà nazionale appartengano. Per noi la dignità ha un solo colore e quindi abbiamo voluto ridare dignità a morti che erano sulle nostre isole così messi alla rinfusa, dimenticati in una fossa comune e abbiamo voluto dare loro un riconoscimento che finora non è ancora arrivato da nessuno».

Gli abitanti delle isole Tremiti, racconta il sindaco, sono circa 400, quasi quanto gli stessi deportati seppelliti. E le piccole isole che sulla memoria diventano grandi chiediamo?

«C'è stato come uno scambio, pieno di scoperte – racconta Giuseppe Calabrese - che riguarda perfino cimiteri di pescatori in isole dell'Egeo, ma che vuole impegnarsi anche sui cimiteri spesso dimenticati dei caduti italiani nelle avventure coloniali italiane. Il fatto è che il comune delle Tremiti dal 2006 ha anticipato questa iniziativa sulla memoria. Sin da ragazzo passavo nella parte più lontana dell'isola di S. Nicola dove c'è un cimitero che risale all'epoca dei benedettini spiega il sindaco. Lì c'era un'abbazia ed era all'epoca l'unica isola abitata. Sopra ci passavano capre e le persone non sapevano nemmeno che laggiù in fondo fossero stati seppelliti in una fossa comune i deportati libici morti di stenti e malattie alle Tremiti».

Così, con un po' di fondi messi a disposizione dal ministero degli esteri e un po' di soldi trovati tra gli isolani, le Tremiti hanno eretto il primo mausoleo in terra italiana per i deportati libici. «E' venuto qui un imam che prima ha sconsacrato il luogo poi lo ha riconsacrato secondo il rito musulmano. In fondo il nostro mausoleo è stato solo un riconoscimento di dignità, un gesto molto semplice, conclude il sindaco Calabrese».

ETIOPIA
(
Italiani, gente non tanto brava)

Nel monastero di Debre Libanos, dove sessantotto anni fa gli uomini del maresciallo Graziani massacrarono a sangue freddo forse duemila fra monaci e pellegrini per vendetta. Debre Libanos. Inerpicarsi nella stagione delle piogge sui monti Entoto, alle spalle di Addis Abeba, è come essere catapultati in una cartolina delle Highland scozzesi. Cielo plumbeo e un caleidoscopio di tonalità di verde. Abbandonate le ultime baracche della capitale, la strada si attorciglia in tornanti, porta a un valico che spalanca gli altipiani dello Scioà, culla degli imperatori d'Etiopia. All'alba, una teoria infinita di donne, adolescenti e anziane a piedi nudi scende in senso opposto verso la città. Sulla testa, il fardello di fascine di legna: moneta di scambio dell'economia informale al mercato di Addis Abeba, distante ancora un'ora di cammino. Qualche chilometro più in là ci si rende conto dell'interminabile salita che queste sherpa etiopi hanno percorso insieme ai loro muli prima di svalicare in discesa verso la capitale. Lo stradone ora s'allarga: l'antica direttrice che conduce ai santuari ortodossi a nord del Paese e alla valle del Nilo porta le cicatrici del periodo coloniale.

Conduce a uno dei luoghi della memoria più tristi dell'occupazione fascista tra il 1935 e il `41: il monastero di Debre Libanos, dove un numero ancora imprecisato di monaci, diaconi e pellegrini di certo oltre 1.400, probabilmente più di 2.000 - venne massacrato per rappresaglia all'attentato cui scampò nel 1937 ad Addis Abeba il maresciallo Rodolfo Graziani, Viceré d'Etiopia. «La pagina più odiosa del colonialismo italiano».

CENTO KM. D'ASFALTO


«Di recente la strada è stata riasfaltata grazie alla generosità dei giapponesi, ma solo per cento chilometri» sogghigna Meskel, che guida con disinvoltura il fuoristrada. A destra e a sinistra praterie verdissime, punteggiate di capanne. I cow-boy dell'altopiano cavalcano avvolti nel gabi, un mantello bianco che li fascia stretti. Eucalipti, acacie e qualche agave. Distese di tef, il cereale usato per impastare l'injera, il pane soffice che è qualcosa di più di un piatto nazionale. Un'improbabile stele - di dubbio gusto proprio qui, nella terra che ha generato questi monumenti funebri - conferma a imperitura memoria dei non molti automobilisti di passaggio l'investimento di riqualificazione stradale del governo nipponico. Una curva brusca a destra e il terreno d'improvviso sconnesso introducono al santuario di Debre Libanos.

Benvenuti nella Lourdes d'Etiopia. «Vaticano» degli ortodossi. Santuario fondato nel XIII secolo si dice da Tekla Haimanot, uno dei santi più venerati di tutto questo paese, che oggi con oltre 70 milioni di abitanti è il secondo più popoloso dell'intera Africa. Con le sue 85 comunità etniche è un mosaico di popoli e culture quasi unico nel continente. I fedeli arrivano qui a migliaia a bordo di ogni mezzo di trasporto. Poi camminano qualche chilometro prima di raggiungere la spianata del santuario. Sul ciglio della strada pellegrini, mendicanti, venditori di souvenir religiosi, anziani, piccoli vestiti di cenci, aspiranti parcheggiatori per i veicoli dei pochi turisti. Ma soprattutto una distesa di ammalati, storpi e menomanti: qui la cecità costituisce ancora un handicap diffusissimo (6 medici ogni 100.000 abitanti), una condanna senza appello alla miseria. È olfattivo il primo impatto sul piazzale del monastero: un fetore acre prende lo stomaco. L'odore della malattia. Dell'antico edificio non resta più nulla, incenerito nelle lotte secolari tra cristiani e musulmani. Quella attuale è una chiesa costruita nel 1961 per volontà di Hailé Selassié. Il cupolone ora accesso dal sole sovrasta due blocchi cubici marmorei, sulla facciata le vetrate istoriate filtrano i raggi. Il caravanserraglio di rumori sembra fermarsi davanti alla sobria cancellata d'ingresso. Sul piazzale si prega sotto variopinti ombrelli colorati, spicchi color arcobaleno usati nelle cerimonie ma utili anche per difendersi dal caldo che inizia a picchiar forte. Quello che non si vede, dal sagrato, è la posizione mozzafiato di questo tempio. Abbarbicato sugli strapiombi di una rupe che poi precipita in un canyon scavato dall'erosione delle acque, non lontano dal leggendario Nilo Azzurro.

COSPIRATORI ERITREI

In questo luogo sacro e isolato cercarono rifugio Moges Asgedom e Abriha Deboch, i due giovani cospiratori originari dell'Eritrea che lanciarono una gragnola di bombe a mano contro Graziani nel febbraio di 68 anni fa. Ne è certo Jan Campbell, esperto di sviluppo sostenibile della Banca Mondiale e appassionato ricercatore della storia recente d'Etiopia.

Fuggirono probabilmente nella notte da Addis Abeba a bordo di una Plymouth americana, come mi ha confermato Ato Tebeba Kassa, un testimone dell'epoca», racconta per telefono da Washington. Le truppe italiane, dopo aver disseminato di morti la capitale etiopica («con gli strumenti del più autentico squadrismo fascista», annotò Ciro Poggiali, inviato speciale del Corriere della Sera), salirono a nord verso l'antico santuario copto, sotto i comandi del generale Pietro Maletti.

Del Boca ha ricostruito che nella loro marcia di avvicinamento a Debre Libanos, gli zelanti esecutori fascisti tra cui i «feroci eviratori della banda di Mohamed Sultan» bruciarono oltre 115.000 tucul (le tipiche capanne), tre chiese, un convento e 2.523 ribelli. Giunti nella zona del santuario, Maletti ricevette le prove di una rapida inchiesta che avrebbe confermato la complicità dei monaci di Debre Libanos con gli attentatori. In risposta, Graziani telegrafò a Maletti: «Passi per la armi indistintamente tutti i monaci, compreso il vicepriore. La carneficina venne compiuta senza un minimo di certezza, ma solo per il sospetto che due eritrei coinvolti nell'attentato si fossero rifugiati dai monaci. L'indagine dei carabinieri fu troppa rapida, si comportarono in modo ignobile»

Le ricerche storiche hanno permesso ormai di costruire con ampi margini di chiarezza quello che avvenne: monaci, sacerdoti, diaconi, pellegrini e il vicepriore di Debre Libanos, vennero passati per le armi. Maletti si trovò davanti circa 4-5000 persone e fece una selezione. Se le cifre di Campbell e dello studioso etiope Degife Gabre Tsadik sono corrette, le vittime potrebbero essere oltre 2.000. Furono massacrati anche i poveri pellegrini arrivati il giorno prima a Debre Libanos. Alcuni vennero uccisi nella zona del convento; i cadaveri vennero trasportati con i camion verso il canyon a sette-otto chilometri dal luogo del crimine. Altri invece, sempre a bordo di camion, furono portati in un villaggio isolato e finiti a colpi di mitragliatrice sul bordo di un dirupo, precipitando nella gola di un torrente.



RADICALE REPULISTI


Era il «radicale ripulisti» voluto da Graziani e già compiuto contro tutti gli oppositori ad Addis Abeba nei due mesi successivi all'attentato. Il Viceré, ricevuto da Maletti un dettagliato resoconto dell'eccidio inviò soddisfatto questo telegramma al Duce: «È titolo di giusto orgoglio per me aver avuto la forza d'animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall'Abuna all'ultimo prete o monaco». Più che farle tremare, quelle viscere vennero disseminate nella stretta gola di Zega Waden, una manciata di chilometri a nord del monastero. A Laga Wolde, presso il villaggio di Shinkurt' conferma Campbell, che di quella terribile esecuzione di massa possiede uno schizzo preciso, eseguito forse da un italiano.

Mostra la stretta gola asciutta di un torrente, i camion carichi delle vittime predestinate, e i treppiedi delle mitragliatrici posizionati per aprire il fuoco: i fucili dei plotoni di esecuzione, infatti, non sarebbero bastati. Sotto il precipizio, resta una desolante valle della morte, dove negli Anni Novanta Campbell e Gabre Tsadik hanno ritrovato teschi, ossa e frammenti di tuniche bianche corrose dal tempo.

«L'ultimo testimone del massacro è morto qualche mese fa» ci dice il diacono Belet Agash, una delle guide del monastero. Nel maggio del 1974 la gente ha raccolto le ossa dei caduti di Shinkurt' e ha costruito questo piccolo sacrario» aggiunge Belet, anch'egli avvolto in un pesante gabi bianco, con un cappello di lana calcato sulla fronte. All'esterno della cancellata del monastero mostra l'unico monumento funebre dell'eccidio di Debre Libanos. Un piccolo edificio in muratura bianca, a un piano, circondato da una piccola balaustra di ferro e erba incolta. Sono sul tetto ci sono dei ragazzini. Una targa in amarico ricorda la strage di monaci e pellegrini. Impossibile entrare. All'interno ci sono tre casse con le ossa di circa seicento persone. E le altre? Il diacono alza le spalle, come a dire «Non so». Probabilmente, sussurra, sono ancora nel dirupo. Sicuramente dimenticati dalla storia e dagli italiani. Forse anche dagli etiopi.

GUERRE D'AFRICA DELL'ITALIA NERA


«Con l'Etiopia abbiamo pazientato quarant'anni. Ora basta!»: così il 2 ottobre 1935 Benito Mussolini annuncia l'inizio della guerra contro l'imperatore Hailé Selassié. È l'ultima tappa della disastrosa avventura coloniale italiana e fascista. Dopo la clamorosa batosta di Adua nel 1896, la campagna di Libia nel 1911-12, la conquista della Somalia (in realtà «affittata» dal sultano di Zanzibar per 150.000 sterline e poi comprata) il Duce vuole un impero. All'inizio di maggio del 1936 il generale Pietro Badoglio conquista Addis Abeba: Mussolini proclama l'Impero italiano d'Etiopia e assegna la corona a Vittorio Emanuele III. Il prezzo pagato dagli etiopici è enorme: nella campagna militare sono utilizzati in modo indiscriminato gas chimici e armi batteriologiche. Secondo Angelo Del Boca, fino al 1939 vengono sganciate 2.121 bombe all'iprite, per un totale stimato in 500 tonnellate. Negli archivi italiani sono conservati i telegrammi del Duce che autorizzano «l'uso di qualunque gas e dei lanciafiamme su vasta scala». L'Etiopia è la pagina più tragica dell'intero periodo. Dopo l'attentato dal quale scampa il 19 febbraio 1937 ad Addis Abeba, il viceré Graziani lancia una durissima rappresaglia. In pochi giorni mette a ferro e fuoco la capitale. Camicie nere, civili italiani ed ascari libici sterminano un numero imprecisato di etiopi: 1.000 morti secondo Graziani, da 1.400 a circa 6.000 stando ai testimoni stranieri, oltre 30.000 per la storiografia etiopica. «Sto facendo fare tabula rasa senza misericordia» scrive il Viceré al Duce: oppositori, ribelli, l'intellighenzia della comunità Ahmara deportati in veri campi di concentramento. La vendetta si abbatte poi su indovini e cantastorie, accusati di vaticinare la caduta dell'impero. Infine sul clero, come dimostra la strage di Debre Libanos. I massacri perpetrati dagli italiani provocano una sollevazione che in breve porta alla sconfitta del fascismo in Africa. Il Duce di lì a poco trascina l'Italia e l'Europa nell'abisso del secondo conflitto mondiale, facendo dimenticare il genocidio africano e i crimini di guerra coloniali, rimasti a tutt'oggi impuniti.